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Quando si chiede il tramonto della stagione dell’austerità, cosa si chiede esattamente? Facciamo un passo indietro e riportiamo una definizione di questo concetto – austerità, usato anche nella sua versione inglese austerity – ormai protagonista del dibattito politico europeo.

Austerità significa una politica di bilancio rigorosa, tesa al raggiungimento del pareggio di bilancio e alla riduzione del debito pubblico. Le leve con cui raggiungere tali obiettivi sono semplici: sul lato del deficit, una riduzione della spesa pubblica e/o un aumento del prelievo fiscale; sul fronte del debito pubblico, misure di dismissione del patrimonio pubblico. Un ruolo cruciale è svolto dalla crescita economica: se c’è, essa permette a uno Stato di assorbire più facilmente deficit e debito, se manca i problemi di bilancio tipicamente si aggravano (le entrate fiscali stentano, la spesa per sussidi di disoccupazione aumenta e così via).

La faccenda è complicata dal fatto che, nel breve periodo (che è poi l’orizzonte che influenza più nettamente le scelte degli elettori), un maggior deficit di bilancio pubblico contribuisce positivamente alla crescita economica. E’ dunque evidente che la domanda degli elettori sia spesso orientata verso due direzioni: meno tasse e più spesa pubblica, obiettivi inconciliabili se non attraverso la produzione di maggior deficit e dunque debito pubblico.

Ma pensare di crescere attraverso il deficit e il debito è una illusione, una droga. Il debito va ripagato, esattamente come accade a un mutuo sulla casa. E dunque, più si accumula debito, più le tasse raccolte dallo Stato dovranno essere usate per ripagare le rate del debito e non per altri scopi (investimenti o spesa corrente). Le tasse crescono per onorare il debito contratto in passato e l’economia privata s’impoverisce. C’è anche un altro effetto: se una parte consistente del risparmio privato è investito in titoli di stato (come accade in Italia), i cittadini sono creditori dello Stato e quindi sopportano sulle proprie spalle l’eventuale rischio di un fallimento. Certo - si dirà - ma proprio in virtù di quel rischio essi percepiscono un interesse. E’ vero, ma c’è anche un’altra faccia della medaglia: quanto più la ricchezza dei risparmiatori è assorbita dal debito pubblico, tanto meno sarà disponibile per fornire credito all’economia privata, alle imprese e ai cittadini. Siamo sicuri che finanziare lo Stato sia più efficiente che finanziare le imprese e il lavoro privato? Ad occhio, sembrerebbe di no.

Con questo sguardo d’insieme, torniamo sulla questione contingente. Cosa chiedono coloro che invocano la fine dell’austerità? Molto semplicemente: che l’Italia faccia più deficit pubblico, in deroga agli impegni assunti con gli altri paesi europei con cui condividiamo una moneta. E dove li prenderemmo questi soldi da spendere? Facendo debito pubblico, chiaramente. Ma possiamo farlo senza costi? Ovviamente no, come abbiamo visto: il debito costa molto. Poi, da quando facciamo parte nell’Eurozona, la sostenibilità del nostro debito pubblico (cioè la capacità di ripagarlo) non interessa solo noi italiani, ma tutti i “condomini” dell’euro.

Non potrebbe essere altrimenti: con un stock di debito superiore ai 2 mila miliardi di euro, l’Italia è un pachiderma in una cristalleria. Non appena gli investitori si accorgono che l’elefante non è sotto controllo, si agitano e si allarmano, vendono gli investimenti italiani e abbandonano il nostro sistema finanziario. Basta poco, in Italia, perché i tassi d’interesse si alzino, come accadde nel famigerato e drammatico 2011.

Lo “spread” non era una invenzione di Mario Monti o di un circolo di ottimati ma una semplice sottrazione: il valore dei tassi d’interesse italiani e quelli tedeschi. Se aumentano i tassi d’interesse, non dovremo solo ripagare il maggior debito che abbiamo contratto, ma dovremo anche pagare più interessi su quel debito. Alziamo le tasse? Paghiamo il debito facendone dell’altro, in una spirale allegra verso il default? Gli avversari dell’austerità sostengono che, allentando i vincoli che finora ci siamo dati (molto laschi in verità), avremo risorse utili per fare investimenti pubblici, per dare soldi a disoccupati e indigenti (qualcuno lo chiama “reddito di cittadinanza”, altri “reddito di inclusione”) e quindi per stimolare i consumi, il lavoro e l’auspicata crescita economica. Francamente, è difficile credere a questa ricetta salvifica, non fosse altro che con tutto il debito che abbiamo prodotto finora dovremmo essere il paese del Bengodi. E non lo siamo, o forse lo siamo per chi con quel debito ha campato e prosperato a spese delle generazioni future.

Dunque, quando vi parlano male dell’austerità, state attenti all’accento di chi vi parla. Se a farlo è un tedesco, lasciatelo parlare: mossi da un moto di solidarietà, potrebbero pensare di mettersi a spendere un po’ più dei loro soldi pubblici, a vantaggio di tutta l’economia europea (se si costruisce un’autostrada in Germania, lavora sicuramente anche qualche impresa italiana). Se a criticare l’austerità è uno che parla la lingua di Dante Alighieri, tenetevi stretto il portafogli: vuole rubarvelo.