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L’Italia ha informato il resto del mondo di essere un paese irriformabile. Lo ha fatto con il timbro incontestabile della volontà popolare espressa a larga maggioranza, e lo ha fatto con i fondamentali economici non molto diversi a quelli del 2011. Di più, oggi abbiamo il sistema bancario più esposto di allora, e i crediti deteriorati “in pancia” alle nostre banche sono uno specchio della “vitalità” dell’economia reale.

La produttività del lavoro è ai minimi termini, tra le più basse dell'Occidente. Dato che ne abbiamo parlato spesso da queste pagine - davvero non possiamo essere accusati di esserci mai accodati all’ottimismo di maniera degli ultimi mesi -, cito Thomas Manfredi dalla monografia dello scorso marzo:

Dal 1995 a oggi la decrescita media della TFP (Total Factor Productivity - NdR) è stata pari allo 0.2%, mentre Francia, Germania e Stati Uniti hanno registrato tassi di crescita annuali pari, rispettivamente, allo 0.6, 0.8 e 1%. Si conferma ciò che è noto a tutti. I paesi europei, Germania esclusa, fanno fatica a tenere il passo dell’innovatore globale americano, mentre l’Italia sprofonda. Addirittura, dall’inizio della crisi la TFP è decresciuta in media dello 0.6% annuale, caso unico nel panorama dei paesi sviluppati!

Dalla crisi del 2011, con il quadro regolatorio attuale e sotto la stretta di feroci vincoli esterni, l’Italia è riuscita a darsi solo una riforma delle pensioni e poco altro, il minimo indispensabile per non collassare sotto il peso del suo debito pubblico e della sfiducia dei mercati e dei risparmiatori sulla sua capacità di ripagarlo. Se oggi c’è un tratto programmatico comune, uno solo, nella pittoresca compagine che ha guidato la guerra alla riforma e al governo che la ha sostenuta, è proprio la voglia matta di prepensionare la legge Fornero. In bocca al lupo.

C’è poi stato un jobs act dal notevole valore simbolico per la rottura del patto politico-sindacale identificato nel totem dell’art. 18, ma dai tenui risultati pratici. Piuttosto, il mercato del lavoro ha mostrato di rivitalizzarsi solo grazie agli sgravi sulle assunzioni - misura però a termine - evidenziando il bisogno vitale delle imprese di interventi strutturali che taglino definitivamente il cuneo fiscale e contributivo sul lavoro.

Per questo e per tutto il resto, per gli investimenti sull’innovazione e sulla ricerca e le riforme della contrattazione collettiva, della giustizia, del mercato e della concorrenza, del sistema tributario e del perimetro dell’intervento pubblico nell’economia, un Sì non sarebbe bastato, ma sarebbe servito. Una condizione necessaria, seppure non sufficiente.

La riforma del quadro regolatorio, e quindi anche della legge fondamentale dello Stato nelle parti che rallentano l’iter legislativo e creano conflitti di competenze tra Stato e Regioni non è neutra rispetto alle prospettive di crescita o di stagnazione di un paese, poiché incide sulla possibilità di fare quel che c’è da fare. Non lo è mai, a maggior ragione non lo è oggi. E’ chiaro che la debolezza dei fondamentali del nostro paese non sono imputabili al ripudio della riforma costituzionale, ma il ripudio della riforma costituzionale ha sancito l’impossibilità di porvi rimedio in tempi ragionevoli, riconsegnando al mondo l’immagine di un paese immerso in un pantano da cui non vuole tentare di uscire. 

Un paese sul quale non vale la pena scommettere e investire, tanto per cambiare. Sarà difficile che questo non abbia conseguenze gravi sui tassi di interesse sul debito e quindi sulla tenuta dei conti pubblici, con tutto quel che ne consegue. Certo, potremo comunque gridare al complotto straniero, che in questo paese si porta benissimo in tutte le stagioni. 

La riforma costituzionale promossa dal governo, approvata dal parlamento e respinta fragorosamente dagli elettori non distraeva il paese dalle sue priorità. Piuttosto, lo ha messo di fronte alle sue responsabilità, rispetto a quelle stesse priorità. Ci sarà tutto il tempo per acquisirne consapevolezza, da qui in avanti.

@giordanomasini