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Nel voto di ieri si sono sommate due tendenze, una 'globale' e l’altra 'locale'. Quella globale – la stessa che ha portato alla Brexit e all’incredibile trionfo di Trump negli Stati Uniti – è la prevalenza del voto-contro come talismano della paura, dell’anti-politica come reazione apotropaica ai pericoli di un mondo che si è insieme ingrandito e rimpicciolito, per quel fenomeno che sbrigativamente chiamiamo 'globalizzazione'.

Questa tendenza è strutturale e comune a tutte le democrazie euro-occidentali, perché strutturali e comuni ne sono i fattori di fondo, a partire dal più inquietante: l’evidente “periferizzazione” demografica, strategica ed economica dell’ex Primo Mondo.

Assolutamente strutturale è anche il corollario di questa reazione, cioè la riemersione del nazionalismo come rifugio ideologico da una tempesta che ha già divelto, in modo definitivo, tutti i segnali di confine dell’ordine mondiale. Siamo di fronte al drammatico paradosso di moltitudini che si ammassano al riparo di frontiere che non esistono più, non perché qualcuno le abbia cancellate, ma perché sono nel frattempo diventate fittizie e indifendibili, meri simulacri di una sicurezza perduta e quindi dolorosamente rimpianta.

Nessuno avrebbe potuto pensare, fino a pochi anni fa, che i due campioni del liberismo globale – il Regno Unito e gli Usa – sarebbero stati guidati da leader, in teoria, conservatori, che avrebbero minacciato a furor di popolo punizioni o ritorsioni contro le imprese che delocalizzano o assumono stranieri. Nessuno avrebbe potuto immaginare che milioni di elettori, nel cuore dell’eurozona, avrebbero interpretato l’euro come il crisma di un potere straniero.

La tendenza locale e specificamente italiana che emerge dal voto di ieri è quella della politica usa-e-getta. Da tempo l’Italia consuma progetti e leadership nello spazio di pochissimi anni, idolatrando chiunque vinca e denigrando chiunque perda, sempre senza misura, trasformando la politica (e il commento della politica) in una sorta di opera dei pupi, di durlindane metaforiche e no, di metafore belliche e pugilistiche, di (diceva quello) “teatrino”, ma senza copione.

Si è passati, nel giro di pochi anni, dall’encomio del Renzi che asfaltava tutti all’oltraggio del Renzi asfaltato e Renzi ci ha messo del suo, nella personalizzazione eroica del proprio ruolo, delle proprie vittorie e inevitabilmente anche delle proprie sconfitte.

Il voto di ieri dimostra tante cose, soprattutto quelle di cui, nell’enfasi del dopo, sembra noioso occuparsi. La prima e evidente è che in Italia oggi non c’è, né ci sarà domani, un’alternativa di governo alla coalizione che sta governando, e che ci dovrà portare tra qualche mese o al massimo tra un anno alle elezioni. Il 41% di Renzi somiglia a un “fronte riformatore”, sconfitto nelle urne del referendum, ma comunque rappresentativo di un’idea delle riforme e del governo.

Questo 41% non è una somma di partiti (dentro lo schieramento renziano non ci sono partiti, tranne il Pd che però neppure riesce a essere “uno”, figurarsi diventare “unitario”) ma una somma di pensieri e di sentimenti che hanno ancora una qualche coerenza e una discreta rappresentatività di quel pezzo di società italiana che non vuole dalla politica la “caccia agli untori”. Le due minoranze che hanno vinto (quella grillina e della destra forza-leghista), non sono un’alternativa, perché non sono sommabili. Sono due alternative diverse, ciascuna delle quali anche elettoralmente minore della minoranza ieri sconfitta nelle urne.

Se potessimo dare un consiglio a Renzi, gli diremmo di rimanere fedele a questo pezzo di Italia che lo ha seguito, sperando di vincere o sapendo di perdere, e di occuparsi di dare ad esso una forma politicamente stabile e quindi più articolata e meno “pigliatutto” di quella prefigurata dall’Italicum, defunto anch’esso ieri, prima di finire sotto i colpi della Corte Costituzionale.

Il referendum ha dimostrato che dopo mille giorni di Palazzo Chigi e di frequentazione assidua dei tavoli europei il quasi ex premier non è più spendibile come il più presentabile degli antipolitici e il più europeista degli antieuropeisti, e che chi vuole votare contro il Palazzo o contro Bruxelles non vota, né voterà mai per lui. Ma ha anche dimostrato che c’è un pezzo di Italia che alle sirene della rivolta preferisce una più complicata fiducia nelle riforme. E lui è il primo a doversene ricordare, nelle mosse che adesso lo attendono.

@carmelopalma