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La discussione sul referendum è, per sua natura, a misura di elettore e non di quesito. Il mitologico "merito" della legge di revisione costituzionale che gli italiani dovrebbero approvare o bocciare è solo una delle variabili che fa propendere il voto dei cittadini nell'una e nell'altra direzione.

Nella scelta degli elettori, e anche degli esperti, conta anche o soprattutto altro. Considerazioni di natura generale, simpatie e antipatie personali e ideologiche per i protagonisti e gli antagonisti delle riforme, valutazioni sugli effetti del responso referendario per la tenuta, l'involuzione o l'evoluzione del quadro politico...

È fin troppo evidente che D'Alema usa il referendum contro Renzi, perché questa è l'arma "democratica" oggi disponibile per azzoppare l'usurpatore irrispettoso del suo ego smisurato e dell'anima perduta della sinistra. Ed è altrettanto evidente che Berlusconi, sfidando il ridicolo, intona tristemente la litania dell'allarme democratico, perché la sconfitta di Renzi e la prevedibile ri-proporzionalizzazione del sistema elettorale rimetterebbe quel che rimane di Forza Italia al centro di qualunque possibile compagine di governo e disarmerebbe la retorica renziana, per sua natura maggioritaria, competitiva e non consociativa.

Che a guidare le scelte degli ex premier di centro-destra e centro-sinistra sia una valutazione ponderata degli effetti del nuovo bicameralismo o della riforma del regionalismo non lo crede nessuno, e neppure gli interessati fanno ormai finta di crederlo. D'altra parte, in politica tutto è politica, anche i cattivi sentimenti o i cattivi pensieri.

In questo quadro, non mancano posizioni apparentemente eccentriche, ma non così isolate, come l'articolo di Vincenzo Coppola che pubblichiamo quest'oggi e che giustifica il voto per il No non contro la riforma, né contro Renzi, ma contro gli effetti negativi che il successo del Sì potrebbe comportare per la tenuta dell'ordine politico-istituzionale, sbrigliando la leadership renziana da qualunque remora e riserva, "libanizzando" il PD e condannando il centro-destra al dominio delle frange più estremiste.

La vittoria del No, dice Coppola, se riassumo bene il suo pensiero, riporterebbe la politica coi piedi per terra, ripristinerebbe l'esigenza di un'ampia collaborazione istituzionale ed eviterebbe di diffondere un'ingiustificata fiducia nell'ordalia democratica come forma ordinaria di dialettica politica. In ultimo, il No restituirebbe ruolo alla figura e alla saggezza di Mattarella, toglierebbe dalla testa degli italiani che la radicalizzazione dello scontro politico sia una scorciatoia per il rinnovamento e rimetterebbe al centro le scelte di governo come vero cuore della discussione istituzionale.

In questo quadro "consociativo" si potrebbe giungere a scelte ancora più coraggiose sul fronte istituzionale, come quella presidenziale, ma in forma più condivisa e meditata, con il concorso di forze politiche che non teorizzano la logica dell'alternanza secondo lo schema antipolitica versus politica e popolo versus istituzioni. È una posizione analoga a quella dell'ex Presidente Monti, che ieri ha ribadito al Financial Times che il suo No non è affatto un No al governo Renzi, che auspica dopo il voto possa tornare a governare meno condizionato, come per l'ultima legge di stabilità, da ragioni di immediato consenso.

La cosa interessante è che ci sono altri che, condividendo un giudizio di fatto neutrale o parzialmente positivo/negativo sulla riforma costituzionale e auspicando che la politica italiana - a partire dal PD - recuperi la sobrietà appannata dalla ubriacatura referendaria, giungono a conclusioni esattamente opposte, cioè all'opportunità di una vittoria del Sì come argine al trionfo del disordine populista e come extrema ratio contro la deriva anti-istituzionale, xenofoba e anti-europea: deriva da cui la sinistra antirenziana (o non renziana) non avrebbe che da guadagnare ulteriori difficoltà e problemi di legittimazione e la destra moderata sarebbe spazzata via come un inservibile residuo del passato. Pensiamo, ad esempio, all'intervento di Barca che, proprio per queste ragioni, ha optato per il Sì, dopo avere inizialmente preannunciato un voto di "astensione attiva".

Non manca neppure chi pensa una cosa e insieme il suo contrario - per ragioni sostanzialmente identiche - come è successo all'Economist che ha endorsato il No, per richiamare il premier a impegnarsi su riforme più concrete e efficaci di quelle elettorali-costituzionali, che rischiano di consegnare il Paese a Grillo, ma ha anche denunciato che il No porterebbe all'ingovernabilità e all'incentivo dell'azzardo populista. 

Ovviamente, questi pareri di osservatori, addetti ai lavori, protagonisti della vita politica sono più sofisticati di quelli degli elettori "normali", ma condividono un rischio comune, quello del wishful thinking, cioè la tendenza a persuadersi della bontà di una decisione in apparenza coerente con una realtà desiderata, ma non realizzabile o concretamente incompatibile coi mezzi usati per conseguirla.

Provare a guardare più "oggettivamente" al referendum non servirà a votare meglio (de gustibus), ma in modo più consapevole Sì. Guardare alla duplice oggettività delle norme in questione e degli schieramenti che ne vogliono confermare o impedire l'entrata in vigore è il modo migliore per votare "bene", qualunque cosa si voglia votare.

Dal punto di vista istituzionale, chi vota No vota per il mantenimento del bicameralismo paritario e del federalismo all'italiana. Chi vota Sì per il suo più o meno soddisfacente superamento. Dal punto di vista politico chi vota No vota innanzitutto per Grillo e Salvini e per la caduta dell'attuale governo (per una ragione anch'essa semplice: perché se vince il No questo governo cadrà, come è caduto quello di Cameron dopo la Brexit, qualunque cosa pensi chi vota No con altre e magari opposte intenzioni). Chi vota Sì, vota per la tenuta del governo Renzi, per l'evoluzione del quadro politico innescato dalle sue riforme e per un passo avanti, magari illusorio, ma fiducioso sul cammino della modernizzazione istituzionale.

In una prospettiva europea, chi vota Sì vota per la continuità di un rapporto stabile con le istituzioni dell'Unione, anche se sempre più problematico,  rivendicativo e stucchevolmente propagandistico (leggasi campagna anti-austerity) contro i "limiti di Bruxelles", ma indiscutibilmente ancorato alla centralità politica dell'Ue e alla difesa dell'eurozona. Chi vota No, vota di fatto (anche se con tutt'altre intenzioni) per i partiti "fratelli" di quell'internazionale populista di cui il burattinaio di Mosca tira i fili per tutto il continente e che in Italia ha un programma esplicito e dichiarato: un referendum per uscita dall'Italia dall'euro. In ogni caso, che si voti sì o no, non si vota sull'Italicum, sulla cui costituzionalità (in combinato disposto con la legge elettorale) sarà chiamata a pronunciarsi presto la Consulta, non gli elettori italiani.

Chi vota No vota no a questa riforma, non sì a una "riforma migliore". E vota per i "padroni" del No, Grillo e Salvini. Esattamente come, nel 1974, chi votava contro il divorzio votava per Fanfani e Almirante, e non per un "divorzio migliore".

@carmelopalma