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Sono stato molto combattuto e ho approfondito tutti i temi della riforma costituzionale: alcuni condivisibili, altri confusi, altri incomprensibili, altri ancora che non approvo affatto.

È inutile dire che quando le materie affrontate sono così numerose, non si può non avere un giudizio eterogeneo: mi piace ad esempio l’idea di rivedere il Titolo V, sono invece spaventato da una ipotesi di Parlamento che trovo in larga parte indefinita. Condivido, come tutti, l’abolizione del Cnel, ma non capisco l’esigenza di modificare la modalità di elezione del Presidente della Repubblica, e potrei proseguire con altri esempi, ma non ha senso.

Ho sentito dunque il bisogno di cercare altre motivazioni alla mia scelta, non essendo stato soddisfatto dal bilancio “giuridico”, che pure propende verso una contrarietà di massima alle modifiche proposte. A questo proposito dico subito che fra queste ulteriori motivazioni non ho assolutamente annoverato un giudizio sul Governo o sul Presidente del Consiglio, poiché non sono le conseguenze sul Governo che mi interessano, ma eventualmente quelle sullo Stato.

Mi concentrerò pertanto esclusivamente sulla politica, non intesa come insieme di alchimie elettorali, ma come funzione necessaria per la conservazione di un complesso sistema di libertà individuali, già fortemente messe alla prova, non dalle leggi, ma dalla formazione delle classi dirigenti.

La salvaguardia della stabilità del Paese dipende, a mio avviso, non tanto dalle presunte turbolenze sui mercati finanziari che potrebbero seguire il voto (l’esperienza recente delle elezioni statunitensi ci indica una loro sostanziale irrilevanza), quanto dalla possibilità che all’indomani dello stesso si creino le condizioni per una normalizzazione del quadro politico.

Appare superfluo precisare che qualunque tipo di normalizzazione non potrà realizzarsi nel clima politico che ormai da anni caratterizza l’Italia, e che questa campagna referendaria ha contribuito ad inasprire trasferendolo dal cosiddetto ceto politico alla intera opinione pubblica, foraggiando come mai prima d’ora i tanto temuti populismi, quelli di opposizione e quelli di maggioranza.

Il Paese appare diviso, molto diviso, e per la prima volta lo scontro fra le posizioni contrapposte ha assunto un profilo decisamente preoccupante, figlio anche della metodologia di propaganda che le forze politiche hanno deciso di assumere. In breve: il giorno 5 dicembre, qualunque sarà il risultato, non si prevede alcun onore delle armi, anzi, c’è da scommettere su strascichi e accuse che dureranno per molto tempo; tutto questo con una parte consistente dei cittadini che non riconoscerà una nuova Costituzione come propria.

Considerando il sistema costituzionale vigente debole e affaticato, essendo sostanzialmente insoddisfatto del sistema costituzionale ipotizzato dalla riforma, e restando convinto che si renda necessario un vero atto di coraggio politico, indirizzando il nostro Paese verso una forma di governo di tipo presidenziale, sono stato portato a riflettere sulle conseguenze dei primi due scenari, la vittoria del SI' e la vittoria del NO.

Nel primo caso vedo un Partito Democratico irrimediabilmente lacerato; una legge elettorale che si appresta ad essere dichiarata incostituzionale e un equilibrio molto precario per la scelta di un nuovo sistema elettorale; le opposizioni di Salvini e di Grillo che non indietreggeranno di un millimetro continuando a tenere nel mirino il Governo Renzi; il centrodestra più ragionevole che si avvia all'estinzione; la tentazione delle elezioni anticipate funzionali a capitalizzare il successo elettorale, ma dagli esiti imprevedibili; la forzata inattività del Capo dello Stato; infine, la graduale manifestazione di alcuni vizi della nuova Carta Costituzionale, cosa che sarebbe aggiuntiva ed inedita. In breve, lo scontro continuerebbe e, anzi, sarebbe accentuato, con il Segretario del Partito Democratico obbligato dalla vittoria a tenere la posizione.

Nel secondo caso vedo il partito di maggioranza relativa che avvierà una riflessione interna sulla leadership, ma che non potrà archiviare l’esperienza Renzi; l’Italicum, con tutti i suoi rischi, di fatto disinnescato; le opposizioni di Salvini e di Grillo che chiederanno le dimissioni del Governo, e forse le otterranno; il centrodestra più ragionevole che potrà riprendere una funzione di guida dello schieramento; la sostanziale impossibilità di andare ad elezioni anticipate e l’obbligo di approvare una legge elettorale che sia il più condivisa possibile e che aiuti a marginalizzare le forze pericolose; l’intervento autorevole del Capo dello Stato che “inviterà” alla collaborazione e metterà in campo tutte le sue prerogative e la sua capacità di sintesi, per dare avvio a una nuova fase costituente, proprio a partire dalla scelta di una nuova legge elettorale e magari dall’approvazione di un pacchetto di riforme; non emergeranno, infine, nuovi vizi costituzionali oltre a quelli già noti.

In questo caso, lo scontro si avvierebbe ad una normale fase di assestamento, ma si potrà considerare consumato con l’acquisizione del risultato referendario. La vittoria del no potrebbe mettere in soffitta il Matteo Renzi piazzista, e restituirci un Matteo Renzi desideroso di ricorrere, con la maturità e l’umiltà che solo certe sconfitte possono dare, unitamente all’aiuto di Mattarella, alle sue indiscutibili doti politiche per rimanere il punto di fuga di una prospettiva politica che si dovrà indirizzare forzatamente verso un equilibrio istituzionale ampio e condiviso, magari proprio in senso presidenzialista e con il contributo di nuove leadership moderate.

Resta dunque da scegliere, al netto dell’entusiasmo ridotto sia per l’attuale Costituzione che per la riforma, fra lo scontro perpetuo su un risultato comunque controverso, o la riflessione obbligata sulla riparazione del danno referendario che anche il Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha dovuto registrare. Io scelgo la seconda opzione.