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Establishment is the new olio di palmaha commentato qualcuno, sintetizzando in un brillante tweet il profluvio di interpretazioni volte a spiegare il successo di Trump come una sana rivolta contro, appunto, l'establishment politico-intellettuale, incapace di capire ed agire. Alla stregua delle élite, genericamente intese e indistintamente colpevoli.

Trump, seppur per un pugno di voti, ha battuto la Clinton (candidato con troppe debolezze) contro i pronostici prevalenti e il tifo di molti. Anch'io ho parteggiato per l'ex First Lady, soprattutto perché temevo accadesse ciò che è puntualmente accaduto, né più né meno che con la Brexit. Dal mio punto di vista, dunque, parteggiavo democratico non perché "non capivo", ma proprio perché ritenevo di capire ciò che stava accadendo, come domanda e come offerta politica, dietro il successo annunciato del mediatico costruttore newyorkese.

La democrazia americana resta grande e la mia ammirazione per essa è, se possibile, oggi accresciuta: in un sistema federalista di pesi e contrappesi, assegna grande potere al presidente eletto anche per un solo voto. Una transizione del potere pacifica e condivisa dopo una campagna durissima e l'appello del presidente uscente Obama affinché il mondo dia una chance al suo avversario Trump, rappresentano un messaggio positivo della forza dello stato di diritto e del costituzionalismo liberale.

Trump ha vinto con il voto, decisivo perché massiccio, dei maschi bianchi che vivono lontano dalle città (non è una colpa, vengo dalla provincia anch'io) e governerà almeno quattro anni: tutti speriamo che non faccia danni, molti sono certi che farà benissimo. Ma il punto non è questo, e torniamo all'establishment: riconoscere senza reticenze la sua vittoria, non demonizzarne la persona e non acconciarsi ora al "tanto peggio, tanto meglio" non implica pensare che abbia avuto ragione e nemmeno che non possa fare danni.

Acquisire potere con metodo democratico e consenso molto ampio (o relativamente ampio, come in questo caso) non ha impedito a personalità di spessore, visione e pochi scrupoli di fare cose terribilmente sbagliate per i loro stessi popoli, come nelle dittature nazifasciste del secolo scorso, titolari, a un certo punto, di un consenso plebiscitario. Ma anche nel nuovo millennio, dal presidente turco Erdogan a quello filippino Duterte, leader democraticamente eletti e popolari si muovono come autocrati liberticidi. Il che a qualcuno piacerà, mentre altri, come me, terrorizza.

Non voglio fare analogie sommarie, ma anche Erdogan e Duterte cavalcano il popolo contro le élite. Il presidente della Turchia sta mettendo il popolo delle moschee anatoliche contro l'establishment e l'élite laiche ed intellettuali di Istanbul per avere il consenso necessario per chiudere "democraticamente" i giornali, e arrestare "democraticamente" giornalisti, scrittori, magistrati ed oppositori politici, anche parlamentari. Lo stesso Orban, eletto dalla liberaldemocrazia ungherese, oggi usa parole violente contro l’Ue e teorizza la democrazia illiberale, a mio avviso incompatibile con l'Unione europea e i suoi straordinari valori protetti dai trattati. Si può ancora dire, oppure bastano le parole improvvide di Junker e qualche mito fasullo sulla burocrazia di Bruxelles a rendere tabù la rivendicazione orgogliosa della libertà dei cittadini del continente?

Trump supporters

A volte la storia si ripete, a volte no. Alcuni dicono: anche Reagan fu accolto con diffidenza. Va bene; ma Reagan era stato governatore popolare e rieletto del più popoloso - e liberal - stato americano, la California. E, soprattutto, aveva un programma economico potente di liberalizzazioni e l'obiettivo di rafforzare l'Occidente liberale sconfiggendo l'impero sovietico e azzerandone l'influenza globale. Reagan aveva una visione positiva, ottimista e protesa al mondo libero della “Great America”.

Altri sostengono: in Italia abbiamo Berlusconi, sappiamo già tutto. Ma non è assolutamente così. Berlusconi era un miliardario mediatico (in questo caso, nel senso di proprietario di tv), costruttore, mai direttamente impegnato nella vita politica del suo paese, capace di un linguaggio diretto e spiazzante che gli ha consentito sorprendenti risultati elettorali fin dalla prima apparizione sulla scena. Aggiungiamo che pure il Cavaliere non è estraneo a disinvolture sessuali che anche un libertario trova discutibili per chi voglia guidare un Paese.

Il Cavaliere e Trump hanno entrambi una speciale avversione per la calvizie e qualche ingombrante conflitto di interessi (anche se il tycoon Usa ha avuto meno processi e, a differenza di Berlusconi, non ha ricevuto condanne per frode fiscale, avendo eluso abbondantemente il fisco sfruttando loopholes legali). Se alcuni profili sociologici e una comunicazione spiazzante in qualche modo li uniscono, la politica li differenzia in modo netto e inequivocabile. Lo stesso Berlusconi lo ha precisato, parlando di se stesso come leader di un centro liberale e popolare. Ma al di là delle autodefinizioni, il Cavaliere ha trovato il sostegno appassionato di molti perché prometteva quella "rivoluzione liberale" anticorporativa di stampo anglosassone che serviva all'Italia; perché annunciava una riforma garantista della giustizia; ribadiva l'alleanza con gli Usa; nominava commissaria europea una laica multilateralista come Emma Bonino.

Per queste ragioni, molti (come me) si sono schierati con Berlusconi. E per le stesse ragioni politiche se ne sono allontanati quando la rivoluzione liberale ha lasciato il posto all'immobilismo sulle riforme economiche, il pragmatismo è stato sostituito dal leghismo xenofobo sull'immigrazione, la difesa dell'imputato eccellente ha assorbito le energie della riforma della giustizia, il clericalismo ha avuto il sopravvento sulla tolleranza nelle libertà civili (pensiamo al caso Eluana) e l'amicizia personale con Putin, con il tentativo di coinvolgerlo nella comunità internazionale in chiave di condivisione delle preoccupazioni e delle strategie, è divenuta una strategia politica in sè, critica verso l'Europa e gli Usa e accondiscendente con l'assertività minacciosa della Russia di questi anni.

Berlusconi aveva tante ragioni liberali dalla sua ma ha avuto il torto, grave, di non essere stato conseguente. C'è chi pensa che con Trump accadrà l'opposto: propaganda sbagliata e politiche giuste. Vedremo se trattasi di consolatorio whisful thinking o (mi auguro) di una previsione politica azzeccata.

Intanto, in attesa di vedere il nuovo presidente statunitense disattendere uno dopo l'altro i proclami illiberali, xenofobi, protezionisti ed isolazionisti di quest'ultimo anno, si può e deve dare una valutazione su ciò che già è accaduto nella campagna elettorale, che non è né poco né archiviabile banalmente come propaganda.

Per me Trump non è "sbagliato" per i capelli o per la moglie, per le torri o per il linguaggio non elitario; per me sono sbagliate, per gli Usa e il mondo, le sue proposte, anche se (anzi: soprattutto perché) promettono soluzioni miracolose a chi si sente escluso e le ha, per questo, votate. Soluzioni che, se attuate, sarebbero sbagliate e pericolose. Se negli anni sessanta in Italia avesse vinto il PCI, avremmo rischiato tensioni internazionali, avremmo nazionalizzato quasi tutto e saremmo usciti dalla Nato e dalla UE: è bene che ciò non sia accaduto, a prescindere dalle colpe democristiane e dalla qualità del popolo e dei leader comunisti di allora. E se fosse accaduto, cosa sarebbe stata: la prova della "bontà" o addirittura della "necessità storica" del comunismo?

Sull'economia la cosa più chiara che Trump ha detto è che vuole abbassare la spesa pubblica e investire nelle infrastrutture che ormai lasciano a desiderare. Bene: quella della spesa pubblica in deficit è una ricetta ben poco innovativa, poco ortodossa per la destra americana dei Tea Party, più keynesiana che friedmaniana, ed in parte già percorsa da Reagan. La scommessa di Trump è fare debito pubblico oggi (anche finanziando le opere con crediti di imposta) per assorbirlo con più crescita domani; quasi mai funziona, anche ammettendo che in teoria possa funzionare. Al netto delle politiche autarchiche, una crescita Usa potrebbe avere effetti positivi in Europa. Con il rialzo dei tassi noi faremo i conti, salati, al momento in cui arriverà.

Tapparini Trump

Ora veniamo al core business della sua campagna elettorale, su "Make America Great Again": protezionismo, isolazionismo, xenofobia, rimpatrio forzato dei clandestini messicani, divieto di ingresso agli islamici, cancellazione della sentenza della Corte Suprema che ha abolito il divieto di aborto.

Trump ha promesso di riportare in America i posti di lavoro ''rubati" dai cinesi e dai messicani, oltre che dai giapponesi; in particolare minacciando dazi del 25%. Sul piano pratico, una guerra dei dazi, fatta oggi, promette di penalizzare l'economia Usa (ed europea) assai più di quanto le possa giovare. In aggiunta, sono le tecnologie (made in Usa) a penalizzare la classe media, ora e in prospettiva, più che la concorrenza dentro la globalizzazione della catena del valore, i cui effetti sono sempre più complessi da analizzare. Ma potranno essere proprio le tecnologie a incentivare il reshoring di alcune produzioni.

Trump ha avuto il fegato di capovolgere la realtà, dipingendo la globalizzazione e il commercio internazionale come fenomeni negativi subiti dagli Usa e dalle aziende americane. In attesa di capire se il dazio al 25% colpirà anche gli iPhone venduti negli Usa e fabbricati in Cina, e di vedere le ritorsioni distruttive a livello globale in particolare contro le aziende più dinamiche della Silicon Valley ma non solo, la vicenda messicana potrebbe portare instabilità dopo tempo immemore in Nord America.

Trump vuole tassare pesantemente le importazioni messicane, in particolare di produzioni di aziende statunitensi, e contemporaneamente chiudere all'immigrazione messicana, deportando milioni di lavoratori irregolari oltre il muro che nel frattempo costruirà. Qualcuno pensa che i messicani potranno accettare un diktat che li riporti indietro economicamente e civilmente? In nome di cosa? Come potrà esserci un accettazione pacifica del nativismo, eretto da Trump a strategia politica, in un continente che si fonda sulla distruzione civile e culturale dei nativi? I cittadini messicani potranno accettare pacificamente di vedere depresse le loro aspettative di crescita ed emancipazione, in nome di un nativismo etnico ed economico?

Ancora, sarebbe saggio per gli Usa e quindi per l'Occidente disdire i grandi accordi commerciali e lasciare che siano le potenze di domani, Cina e India, a dettare in solitudine gli standard economici del futuro?

Il richiamo al nazionalismo economico di Bannon non è così lontano da quello all'autarchia e suona stonato e dalle conseguenze imprevedibili se viene dal paese delle multinazionali. Bastiat diceva che dove passano le merci non passano gli eserciti e viceversa: senza arrivare a questo le guerre commerciali non promettono pace e stabilità, soprattutto se dovessero avere nell'immediato contraccolpi negativi sulla crescita mondiale.

Allo stesso modo non promette stabilità la promessa degli Usa di Trump di sottrarsi al ruolo di stabilizzatore o di pacificatore "di ultima istanza", ruolo costoso ma che ha contribuito in modo decisivo a fare davvero "great" l'America dal Novecento. Un eventuale disimpegno Usa dalle sedi multilaterali, di diritto o di fatto, a partire dalle stesse Nazioni Unite, potrebbe ulteriormente minare la credibilità del diritto internazionale come fattore di deterrenza e restringimento del perimetro entro il quale gli stati minacciano o praticano l'uso della forza.

L’America di Obama già aveva smesso di considerarsi il poliziotto del mondo in uno sforzo di redistribuzione degli impegni con altri soggetti, soprattutto, come sappiamo, in Medio Oriente e nel Mediterraneo. Ma, anche qui, la forma è sostanza e quella di Obama, con le sue contraddizioni, era un’altra politica. Certo, vedremo le mosse sul terreno, ma non è difficile immaginare che, dall'Europa all'Asia, il venir meno delle promesse dello scudo nucleare americano come deterrente all'assertivismo russo o cinese aprirà la discussione sul "necessario" riarmo nucleare.

Trump ha confermato che nominerà un giudice antiabortista nella speranza che la Corte Suprema possa ribaltare la sentenza Roe contro Wade e reintrodurre il divieto federale per aborti non terapeutici o dopo una violenza. Il presidente eletto si è subito messo la coscienza a posto assicurando che poi starà ai singoli stati dell'Unione mantenere legislazioni più aperte, ma il passo indietro ed il tributo ideologico ai superconservatori farà velocemente il giro del mondo: prima tappa in Europa, la Polonia.

libertystatue

Il linguaggio usato da Trump in campagna elettorale sulle minoranze e su altro è stato visto da molti, anche in Italia, come un liberatorio affrancamento dal politicamente corretto. Contro il conformismo linguistico ricordo magistrali lezioni di Pannella, che, nel pieno delle discussioni politiche sui diritti di libertà delle persone omosessuali, ammoniva: "conosco eterostronzi e omostronzi", per evitare che qualcuno di noi ritenesse che, sul tema, fosse obbligatorio dare ragione a senso unico.

Pensare però che il linguaggio televisivo e dei social utilizzato dai leader non preluda a una realtà conseguente è una illusione, forse pia, ma sempre illusione. Un linguaggio violento porta violenza, un linguaggio razzista porta razzismo, uno sessista porta discriminazione, uno omofobo porta omofobia. I tabù del linguaggio, “nero e non negro”, non sono artefatti buonisti per una coscienza pulita a buon mercato, ma strumenti per la dignità e libertà altrui, che è la miglior difesa della nostra libertà.

Per tutto questo - in attesa di giudicare la sua presidenza e confidando in qualche sorpresa positiva - politicamente non riesco a trovare motivo di soddisfazione o di consolazione nella vittoria di Trump sull'establishment o sulle élite, che in Occidente hanno guidato la più grande e ininterrotta corsa verso la libertà e il benessere.

Ne traggo una lezione - che è diverso - e un motivo di mobilitazione. Le ragioni di Trump e dell'ideologia etnonazionalista di cui è diventato il campione mondiale sono fallaci ma magnetiche, i valori del suprematismo e del nativismo pericolosi ma potenti. Gli Usa sopravvivranno a Trump, l'Europa invece no. Non sopravviverà se non sapremo reagire a questa ventata di linguaggio e politiche etnonazionaliste con linguaggio e politiche uguali e contrarie, ma altrettanto potenti.

Non dobbiamo - noi che scommettiamo sulla società aperta come lascito migliore per i nostri figli - pensare che chi vince abbia ragione e dargliene anche un po' seguendo la sua agenda: un po' più illusoriamente duri sugli immigrati, un po' più protezionisti, un po' più nazionalisti, un po' più euroscettici. Perché se queste ricette, nelle nostre previsioni, sono destinate a funzionare tanto varrebbe lasciare che a "cucinarle" sia chi le ha imposte nel menù della politica contemporanea.

Dobbiamo lavorare invece sulla nostra agenda: integrare l'Unione per avere economie di scala che ci facciano contare nel mondo; spingere sulla globalizzazione che restringe i divari tra i popoli secondo le regole, che ci sono, del "free and fair trade"; investire per rassicurare, proteggere e rilanciare professionalmente i lavoratori spiazzati dalla tecnologia (la sola che ci può mantenere competitivi ed economicamente forti più di qualsiasi protezionismo); raccogliere le risorse pubbliche con un paniere di imposte diverso da quello studiato per il welfare state di due rivoluzioni tecnologiche fa; difendere i diritti dei neri o dei gay ovunque come difesa della nostra libertà; avere un rapporto serio, esigente e non corrivo con i milioni di islamici che abitano e sempre più abiteranno il "nostro" mondo e ne diventeranno cittadini, in una piena uguaglianza di diritti e di doveri; conservare un senso vigile della nostra memoria e delle disgrazie del nostro passato. 

Dell’Europa delle patrie, purtroppo, sappiamo già tutto: sappiamo come è iniziata e come è finita, - dopo secoli di guerre fratricide e l'esplosione di violenza e follia della prima metà del secolo scorso - nel 1945, anche grazie all'interventismo dei Paesi anglosassoni, che sapevano che il mondo libero e democratico vince o perde tutto insieme, ora come allora.

Costruire il fronte dell'apertura per vincere la battaglia contro la chiusura. Questa è la sfida politica dei tempi nuovi. Perché la storia non finisce, né cammina necessariamente in direzione del progresso, e il "nostro" mondo potrebbe tornare ad essere un posto assai meno libero, pacifico e sicuro.

@bendellavedova