Schwarzenegger

‘Per quanto io sia fiero di etichettarmi come repubblicano, c’è un’etichetta cui tengo sopra ogni altra cosa: americano’ e ancora, ‘non solo è accettabile mettere prima il proprio Paese del proprio partito, è il nostro dovere’. Chiarissimo come sempre, Arnold Schwarzenegger ricorda orgogliosamente il giorno in cui ha ottenuto la cittadinanza americana, nel lontano 1983, spiegando che, malgrado i suoi natali austriaci, gli USA sono la sua patria per scelta, la patria che lo ha formato, di cui condivide valori, ideali e la portata simbolica nell’immaginario collettivo.

Davanti all’ipotesi Donald Trump, l’ex Governatore della California afferma che per la prima volta non voterà il Partito Repubblicano. Immediatamente affascinato da Nixon in chiave anti-socialista, Schwarzenegger, appena migrato negli USA, vide nella tradizione repubblicana di Lincoln, Roosevelt e Reagan il modo per portare avanti la propria idea di difesa e affermazione delle libertà individuali. Oggi, dopo una vita di successi sportivi, cinematografici, politici e imprenditoriali, in qualità di esponente del Partito, si dissocia dalla corsa di Trump alla Casa Bianca.

Scelta coerente, perché il candidato repubblicano alla Presidenza degli Stati Uniti incarna la negazione degli anzidetti ideali. O meglio, incarna il loro scimmiottamento, come patina di lacca e lustrini che serve a coprire il profondo e programmatico declino dell’Occidente come fino ad oggi lo abbiamo conosciuto. “Profondo”, perché già con l’amministrazione democratica abbiamo assistito alla graduale rinuncia degli Stati Uniti al loro ruolo di superpotenza e gendarmeria globale.

Dopo la linea morbida e distensiva di Obama, l’isolazionismo economico e geopolitico di Trump ribalterebbe il modo stesso in cui finora gli USA sono stati guardati dal mondo intero. Tutto questo è “programmatico” perché si allinea drammaticamente alle posizioni anti-occidentali ed anti-atlantiste delle destre eversive del vecchio continente, che usano l’isolazionismo come un tempo si usava il pacifismo. Ossia, come arma per servire i loro danti causa che si trovano oltre gli Urali.

Il centrodestra italiano è diviso tra due poli, che propongono soluzioni diverse, entrambe rischiose. Da una parte, chi aspetta l’ennesimo restyling, questa volta da parte di Stefano Parisi, mosso da ottime intenzioni e pregevoli programmi, ma momentaneamente congelato davanti alla brunettizzazione della campagna referendaria per il No. Dall’altra parte, una destra eversiva, parlamentare ed extraparlamentare, che aspetta (metaforicamente) l’arrivo dei carri armati di Putin, affinché ci insegnino quanto sono belle l’indipendenza e l’autodeterminazione dei popoli (sempre metaforicamente, sia chiaro).

Schwarzenegger ha sperimentato l’occupazione russa, lo Stato di polizia sovietico e l’arretratezza che ha lasciato dietro di sé. In un mondo in cui l’area popolare e liberale sembra dividersi tra battaglie marginali per la razionalità e l’OPA dei russi, l’atleta americano non può pensare, come certi partiti del vecchio continente, di rifugiarsi sotto il Patto di Varsavia. Il mito della stabilità sociale, assicurata da muri e assistenzialismo, è la chiave di volta del pensiero di una destra "alternativa" che intende nutrirsi dei voti dei socialisti delusi.

La situazione non è certo rosea neppure per i sedicenti moderati che Parisi dovrebbe puntare a rimettere a fuoco e riassemblare: dal “Sì” contro le “trivelle” al “No” alla riforma della Costituzione, l’antirenzismo ha spinto il centrodestra su posizioni sempre più saldate ai vari partiti comunisti e post-comunisti italiani. Motivazioni (apparentemente) diverse, ma con lo stesso nemico. Il problema non è solo tattico e contingente: c’è una lacerazione culturale che ci presenta oggi uno schieramento che dovrebbe essere moderato, in realtà, corroso e unito dal livore e dal giustizialismo.

Il 20 settembre ha debuttato La Verità, quotidiano fondato da Maurizio Belpietro “contro ogni arroganza”. Il suo primo numero apre con una prima pagina dedicata a “Le intercettazioni di casa Renzi nell’inchiesta per bancarotta”. Si parla di un’indagine della Procura di Cuneo in cui figurano anche i genitori del Presidente del Consiglio. “Ecco tutte le telefonate”. Sembrano quasi gli anni ruggenti degli interrogatori via editoriale contro Silvio Berlusconi, quando le telefonate erano addirittura inscenate nella prima serata del palinsesto pubblico, con un metodo un tempo osteggiato per la scarsa considerazione del diritto alla difesa (e del segreto istruttorio).

A nulla sono valse le tante battaglie garantiste e di libertà contro l’abuso di questi atti d’indagine a scopo giornalistico. Vuol dire che i partiti dei valori e dell’arcobaleno avranno pure perso tante battaglie, ma la libidine dell’avviso di garanzia, dell’indagine, della condanna, dell’arresto o anche solo dell’intercettazione muove ancora la politica e nutre di contenuti l’opposizione. Mancano solo i girotondini, insomma. E chissà che qualcuno non faccia un bel sequel de “Il Caimano” contro Renzi. Naturalmente in russo.

Passando a quotidiani più mainstream, il 12 ottobre, Il Giornale titola “Se il “no” al referendum è censurato dalle università italiane”. E se già il titolo è pesante, l’incipit dell’articolo riesce ad essere persino più affilato, con un accostamento al giuramento di fedeltà al regime fascista nel 1931. Ora, non sappiamo come i lettori prenderanno il parallelismo Renzi – Mussolini, ma di certo non saranno contenti, ad essere diventati le nuove fonti ufficiali per il principale quotidiano dei moderati italiani in tema di “censura” del No al referendum, i collettivi studenteschi di Roma e Milano e il coordinamento studentesco di Link. Quest’ultima è un’associazione universitaria apertamente di sinistra. Quanto ai “collettivi”, è difficile dirlo, perché gli unici collettivi studenteschi che si possono trovare con una semplice ricerca su internet sono i Collettivi Studenteschi Rivoluzionari o altre sigle che adottano un pugno chiuso come simbolo. Noi vogliamo credere, come Il Giornale, all’imparzialità delle notizie riferite da queste associazioni.

L’episodio “più clamoroso” ripreso dall’articolo, tra quelli denunciati, riguarda il caso della facoltà di Giurisprudenza de La Sapienza di Roma. Il Preside Paolo Ridola avrebbe concesso “solo due conferenze, una per il Sì e una per il No”. Ci domandiamo dove sia il vulnus, la censura, e quante conferenze avrebbe dovuto concedere il Preside, se le posizioni possibili sono solo queste due. L’articolo aggiunge che lo stesso Preside sarebbe uno dei firmatari del manifesto “Basta un Sì”, ma non si capisce in che modo questo falserebbe la normale dialettica all’interno della facoltà, considerato che è stato dato lo stesso spazio a chi è a favore e a chi è contro la riforma della Costituzione.

Passiamo poi all’Università Roma 3, dove il Senato accademico sta valutando una mozione per vietare la propaganda studentesca a partire dal quarantacinquesimo giorno prima del voto. In questo caso, l’accademico favorevole al “Sì” sarebbe il Rettore. In base a quale principio o evidenza, siffatta limitazione volta a circoscrivere nel tempo le attività di proselitismo, in modo da bilanciare libertà d’espressione, il sereno e regolare svolgimento delle attività accademiche e la serena partecipazione al voto, escluderebbe solo le iniziative a favore del “No”, e non anche quelle di segno opposto, non ci è dato saperlo. Anche qui, sembra esagerato parlare di “censura”: trattasi di una scelta di amministrazione del tutto opinabile, ma non discriminatoria. In un incontro sul referendum tenutosi presso l’ateneo di Milano Bicocca, invece, su sei relatori, ben quattro erano a favore del “Sì”. Uno in più rispetto agli avversari: un vero affronto.

Infine, come non menzionare l’esempio di Bologna? Ad essere contestato, in questo caso, è un ciclo di seminari “per capire la riforma costituzionale”, con tanto di crediti formativi previsti. Ora, possiamo tollerare di tutto, ma addirittura spiegare una riforma della Costituzione agli studenti che hanno appena sostenuto l’esame di diritto costituzionale e devono aggiornarsi, o che rischiano di dover affinare la loro preparazione prima dell’esame, evidentemente, è ritenuto un vero e proprio oltraggio. A prescindere dall’esame di profitto, ci domandiamo quale possa essere una sede qualificata dove un cittadino ed elettore consapevole possa informarsi in modo tecnico riguardo la riforma, se non l’Università.

La posizione di Schwarzenegger ci ricorda di anteporre gli interessi del Paese rispetto agli ordini di scuderia, perché Renzi avrà una durata politica limitata; al contrario, i problemi atavici delle istituzioni italiane non si risolvono da soli e possono solo aggravarsi col tempo. Il centrodestra ha una propria ricetta per risolverli, o intende chiamare in aiuto qualche centro sociale okkupato?