Brusadelli banconota grande

Fosun compra una banca privata europea: sarebbe possibile per BNP-Paribas o Unicredit comprarne una cinese? State Grid Corporation compra il 35% di CDP Reti: sarebbe possibile per un’azienda europea comprare il 35% di State Grid Corporation? Geely compra Volvo Auto: sarebbe possibile per la Volkswagen o la FIAT comprare Geely o Shanghai Auto?

La risposta alle domande di cui sopra, purtroppo, è negativa. Per capire perché e il tentativo che l’Unione Europea sta facendo per cercare di cambiare le cose bisogna partire dal 2011, anno in cui il sottoscritto ricopriva la carica di vice presidente della Camera di Commercio dell’Unione Europea a Shanghai (EUCCC). La EUCCC rappresenta più di 1700 aziende europee con operazioni nel paese e ogni anno produce un utilissimo “Position Paper” sulla situazione degli investimenti europei in Cina che viene letto con attenzione a Bruxelles. Rapporto fondamentale quello con la Cina, di cui, non dimentichiamo, la UE era allora ed è ancora il primo partner commerciale.

Fu nel corso dell’elaborazione del Position Paper del 2011 che la parola “reciprocità” venne usata la prima volta, dal sottoscritto ma anche da altri esponenti di studi legali e banche d’investimento. Purtroppo, si decise a maggioranza di non parlare troppo di reciprocità, in quanto secondo alcuni questa sarebbe stata percepita negativamente e avrebbe generato una “corsa al ribasso”. Si fece invece una raccomandazione all’Unione Europea: negoziare un accordo bilaterale sugli investimenti con la Cina.

L’idea era già nell’aria da tempo e fu così che due anni dopo, forte della competenza esclusiva acquisita con il Trattato di Lisbona, la UE avviò il percorso necessario per concludere entro “tempi brevi” un BIT (Bilateral Investment Agreement) con la Cina. Tra gli obiettivi perseguiti dalla UE: (a) tutelare gli investimenti europei nel Paese (b) ridurre le barriere all’investimento (c) favorire il flusso reciproco di investimenti tra Cina e Europa.

Meno ovvie invece, e molto meno solide le motivazioni cinesi per sedersi al tavolo: tra queste la semplificazione dei rapporti bilaterali con la UE, in quanto i 27 accordi bilaterali esistenti tra Cina e paesi UE (l’Irlanda è l’unico a non averlo) verrebbero sostituiti da un unico BIT. Poi c’era il discorso dei visti per investitori cinesi. Un ruolo marginale lo giocava anche il desiderio della Cina di non trovarsi “isolata” in caso di conclusione del TTIP tra UE e USA. Meno impellente invece era l’obiettivo di migliorare accesso al mercato in quanto l’UE nel suo complesso, come notato sopra, era (ed è) già molto aperta.

Sono passati tre anni e dell’accordo purtroppo non si vede l’ombra. Nel frattempo, gli investimenti europei in Cina sono calati nettamente per la prima volta negli ultimi vent’anni, mentre quelli cinesi in UE sono aumentati significativamente. Ed ecco quindi che la parola “reciprocità” comincia a leggersi ovunque, non solo nel Position Paper del 2016, e a sentirsi anche nelle dichiarazioni di leader europei (ultima la stessa Merkel).

Non vorrei essere frainteso: molte aziende italiane tedesche o spagnole hanno estremo bisogno di nuovi investitori e di capitali freschi che aprano anche prospettive di vendite su nuovi e più dinamici mercati. Ma se l’Unione Europea resta “aperta”, mentre i paesi di provenienza degli investimenti restano “chiusi”, può crearsi a lungo andare una situazione di squilibrio. La soluzione, ovviamente, non è chiudersi ma negoziare aperture reciproche e, allo stesso tempo, decidere una volta per tutte anche a livello europeo quali sono i settori strategici dove l'autorizzazione ad investitori extra UE dovrebbe rendersi necessaria. Tale determinazione finora è lasciata ai singoli stati membri.

Gli ostacoli da superare per raggiungere un accordo con la Cina sono di varia natura:
1. Gli stati membri UE sono divisi tra chi è incline ad attrarre investimenti anche in settori strategici (porti, energia, telecomunicazioni, etc.) e chi è più cauto, così come tra chi vorrebbe maggiori concessioni dalla Cina e chi invece non lo ritiene opportuno. Sul secondo punto almeno l’approccio della Commissione sembra ormai chiaramente indirizzato a negoziare aperture reciproche.

2. La Commissione è a favore dell'inserimento di una clausola ISDS per la risoluzione delle controversie all’interno del BIT con la Cina, posizione sostenuta anche dalla EUCCC. Purtroppo, ISDS è sotto fuoco incrociato in Europa soprattutto da parte dei tedeschi e dei francesi che contestano il suo utilizzo all’interno del TTIP. Anche qui, basterebbe un minimo di buon senso per capire che servono approcci diversi in trattati con controparti diverse.

3. Contrariamente a molti paesi europei, dove autorizzazioni governative sono richieste solo per alcuni settori limitati, la Cina ha un regime autorizzativo per tutti gli investimenti stranieri in qualsiasi settore. Perché un BIT abbia veramente qualche impatto sull’accesso al mercato e perché le concessioni non restino tali solo sulla carta, la Cina dovrebbe in primis cambiare l’approccio, per esempio tramite l’adozione di una “negative list” di settori in cui l’investimento straniero è proibito o soggetto ad autorizzazione. Questo per esempio è l’approccio già utilizzato in alcune “free trade zones”, ma dovrebbe essere esteso a tutto il paese e ciò non avverrà prima del 2017.

4. Infine, come ricordato, l’Europa parte da una situazione di apertura e da 27 BIT esistenti, quindi diventa più difficile trovare concessioni da estendere alla controparte per invogliarla a farne di sue. L’incerto esito dei negoziati sul TTIP potrebbe essere un disincentivo per la Cina a procedere.

Nonostante queste difficoltà, resto ottimista. L' esperienza negli investimenti bilaterali UE-Cina maturata in un quarto di secolo mi ha convinto che un accordo equilibrato porterebbe benefici a tutti: le aziende europee avrebbero vita più facile e quelle cinesi una base giuridica più solida attraverso la quale espandersi in Europa. Inoltre, le polemiche recenti sull’ingresso di capitali cinesi in aziende strategiche europee potrebbero essere sopite se lo stesso venisse consentito ad aziende europee in Cina. Se si guarda allo stock totale degli investimenti europei fuori da UE, e degli investimenti che entrano nella UE, quelli reciproci UE-Cina sono meno del 5% del totale. C’è spazio per crescere e migliorare.

Gli stati membri sembrano aver capito (tranne a quanto pare il Regno Unito, che vive nel passato remoto) che la UE ha la massa critica necessaria per negoziare con un paese come la Cina. Per andare avanti però non bisogna disturbare il conduttore: se ogni stato membro UE comincia a rimettere in discussione il mandato dato alla Commissione o cerca di negoziare improbabili "trattamenti speciali" con la controparte non si arriverà da nessuna parte. Ed a perderci saranno tutti.