art. 70 grande

L’art. 70 della riforma “Renzi – Boschi”, chiave di volta del nuovo bicameralismo differenziato, è stato bollato dai suoi detrattori come una sorta di mostro giuridico. Il passaggio da nove semplici parole a più di quattrocento è diventato subito il paradosso su cui giocare per mettere in discussione la genuinità dell’intento di semplificazione, snellimento e governabilità di chi ha ideato il superamento del bicameralismo paritario. Sul tema si sono sprecate le battute, ma nessuno sul piano mediatico si è misurato col nuovo testo per portarne alla luce caratteristiche e criticità.

Il nuovo "complicatissimo" art. 70 della Costituzione, in realtà, consiste per lo più in un’elencazione di tipologie di leggi e termini che definiscono una sorta di tabella di marcia per i procedimenti legislativi. Un’enumerazione così prolissa (che a questo punto evitiamo di riportare), per le persone non avvezze ai testi di legge, non è proprio il massimo della leggibilità, perché è un po' arida e macchinosa. Questo non significa che il contenuto dell'articolo sia oscuro, confuso o, peggio, incomprensibile. Basta un po' di buona volontà e di sforzo per capirne il senso. E non è raro che si chieda un simile impegno ai cittadini.

In effetti, l’opinione pubblica italiana è stata ritenuta in grado di comprendere le mille sfaccettature delle responsabilità penali delle persone coinvolte in inchieste di grido, ad esempio in quella di Mafia Capitale. La stampa regala aggiornamenti costanti sui più disparati casi di cronaca giudiziaria, elencando nomi e fatti non sempre facili da categorizzare e ricondurre a fattispecie di reato. Ebbene, questa capacità di analisi in punto di diritto, d’un tratto, si perde al cospetto di un articolo che nel primo paragrafo fa un lungo elenco. E dire che gli elenchi hanno fatto struggere gli intellettuali italiani, nel programma di Fazio e Saviano, fino a diventare il simbolo di un certo tipo di cultura e d’impegno politico.

Adesso il variegato fronte del “no” liquida il famigerato articolo come un inutile percorso ad ostacoli, malgrado esso annoveri tra le sue file, insieme ai tanti cantanti, anche illustrissimi giuristi, in grado di spiegare, a chi non è del mestiere, che in un testo di legge è normale parlare di procedimenti, scanditi da meccanismi giuridici e non dall’alternarsi delle stagioni o dal tempo dell’anima. Insieme a queste spiegazioni, certo, si potrebbero contestare sia la tecnica redazionale dell’articolo sia le scelte operate con la riforma, ma è poco serio rinunciare o indurre a rinunciare a ogni ragionamento perché il testo è troppo lungo.

In particolare, se finora il procedimento legislativo era uno solo (in cui le Camere svolgevano le rispettive funzioni su base paritaria), con la riforma i procedimenti diventano almeno due, di cui uno identico a quello ora in vigore, cioè ad approvazione bicamerale. Serve proprio a questo l’elencazione: circoscrivere i tanti ambiti, piuttosto delicati, in cui resta tutto com'è (anche per quanto concerne l’abrogazione, la modifica o la deroga delle norme in questione). Si pensi, solo a titolo d’esempio, alla legge sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea e alla legislazione sui principi generali dei bilanci degli enti locali.

Il procedimento legislativo monocamerale, invece, vede un ruolo preminente della Camera dei deputati, che approva le leggi. Il disegno di legge è immediatamente trasmesso al Senato, che può comunque incidere al procedimento legislativo, secondo le modalità e le condizioni previste. Ciò che ne può scaturire è un ulteriore esame da parte della Camera. La condizione è che esso sia richiesto da un terzo dei senatori, entro dieci giorni dalla ricezione del progetto. La condizione (ma non il termine) viene meno per le leggi che danno attuazione alla clausola di supremazia, che sono una delle novità della riforma, ossia leggi proposte del Governo, con le quali lo Stato interviene in materie non riservate alla sua legislazione esclusiva, per garantire che non si comprometta il principio di unità dello Stato, e cioè quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.

All’esame segue un’eventuale proposta di modifica, entro trenta giorni. Per quanto riguarda le leggi di bilancio vi è sempre l’esame del Senato, ma i tempi per le proposte di modifica, per ovvie ragioni di speditezza, sono dimezzati. La Camera dei deputati può in ogni caso superare le proposte presentatele dal Senato, con un voto a maggioranza semplice, oppure a maggioranza assoluta in caso di leggi che danno attuazione alla clausola di supremazia. Dopo che questi termini spirano inutilmente o dopo che la Camera si pronuncia definitivamente sulla proposta, la legge può essere promulgata dal Presidente della Repubblica.

La riforma è stata criticata da alcuni perché non abolisce puramente e semplicemente il Senato, da altri perché il venir meno delle funzioni di una Camera renderebbe le leggi meno ponderate. Non sorprende che alcuni critici, visto il livello del dibattito, adducano entrambe le motivazioni. In realtà, le due critiche si compensano e perdono di pregio davanti all’evidenza: con la riforma si è cercato un temperamento tra l’esigenza di certezza e di prevedibilità dei tempi per l’ottenimento di un intervento legislativo, obliterando le funzioni identiche tra le Camere, e l’ovvia esigenza garantistica e raccordo tra lo Stato centrale, gli enti autonomi e l’Unione europea, che ora riposa nella specificità del ruolo e della struttura del nuovo Senato.

Tutti questi meccanismi servono a porre un freno alla tendenziale dilatazione dei tempi di discussione e a tagliare le tattiche ostruzionistiche che possono nascondersi nelle pieghe delle navette parlamentari, contemperando siffatte esigenze con la necessità di fornire sufficienti garanzie alle autonomie territoriali. Si spiega, dunque, come mai il procedimento monocamerale subisce alcune varianti qualora lo Stato intenda esercitare la sua potestà legislativa accentrando a sé una materia normalmente di competenza regionale. Ciò che si intende proteggere è l’effettività della funzione diversificata del Senato quale espressione degli enti regionali, in un’ottica di check and balance, rendendo più incisivo il suo potere di proporre modifiche.

Non si può escludere, in astratto, che questo procedimento così ramificato nasconda alcuni tranelli o falle che possano renderlo meno efficiente rispetto agli obiettivi perseguiti, o che a risentirne possa essere la qualità delle leggi, quindi l’efficacia del procedimento. Altro argomento di spessore potrebbe vertere sulla solidità dei contrappesi previsti rispetto al rafforzamento del Governo centrale rispetto sia alle opposizioni sia alle Regioni. Ma sul punto sarebbe il caso di persuaderci con argomenti incisivi e concreti e non con critiche che sfumano in una sterile contrapposizione di tipo politico, se non addirittura nella delegittimazione del Parlamento e del Governo che hanno portato alla riforma.

In altre parole, l’interprete esperto di Costituzione dovrebbe focalizzare la sua attenzione sul testo normativo e non sulla simpatia nei confronti dell’area politica da cui proviene. Solo così si può tornare dalla sociologia della Costituzione al diritto positivo. E chi meglio degli esperti può spiegare a chi è a digiuno di diritto che non è tanto la quantità di leggi o la quantità di parole usate ma la loro qualità a far sì che una disciplina funzioni? Purtroppo, a volte, per snellire qualcosa, occorre stabilire alcune scadenze, soprattutto fare molte distinzioni, al fine di salvaguardare tutti gli interessi in gioco, poiché il mondo reale è difficile da riformare a colpi di slogan o confidando nella capacità di autoregolarsi da parte della Costituzione più bella del mondo.

Si aggiunga che da un altro paragrafo è prevista una norma che detta una regola generale per dirimere i conflitti di competenza tra le due Camere, nonché la competenza a decidere su di essi (che spetta ai rispettivi Presidenti, d’intesa tra loro). Evidentemente i conflitti di questo tipo sono impensabili per i promotori del “No”, oppure questi ultimi non ritengono utile che sia la Costituzione a indicare come risolverli. Infine, l’ultimo paragrafo fa riserva al regolamento del Senato per quanto concerne la sua attività conoscitiva e le osservazioni sugli atti o documenti all’esame della Camera dei deputati. Anche in questo caso, sarebbe stato più snello un articolo che non prevedesse affatto questa riserva, ma non sembra tanto oscuro il motivo che ha spinto i redattori a dettare alcune regole chiave per ridisegnare la fisionomia del Senato, a fronte del sua trasformazione in qualcosa di simile ad una Camera delle autonomie.

Sarebbe il caso di chiedersi che idea di Paese abbiano in mente i promotori del “No”, se ogni prospettiva di riforma è sminuita o derisa "un tanto al chilo", contando le righe o le battute di un articolo di legge. Sarebbe altresì interessante una riflessione sui livelli di alfabetizzazione in Italia, sulla propensione alla lettura e sull'abitudine (ormai apparentemente perduta) a leggere testi che superino la lunghezza di un tweet. Che fortuna può avere il costituzionalismo dinanzi alla frammentazione del pensiero in poco più di cento caratteri? E quale sarà il ruolo dei costituzionalisti o degli esperti di diritto se, invece d’adempiere alla loro vocazione di interpreti, da consultare per ottenere pareri su determinate questioni, continueranno a dissimulare la loro (pur legittima) militanza in una sorta di obiezione di coscienza, cioè nel rifiuto di rendere intellegibili le parole del legislatore, quando sono, per ragioni di obiettiva necessità, più articolate di uno spot?

@davide_piancone