Aleppo guerra

Nell’ultimo mezzo secolo molti hanno sentito i radicali parlare di 'militanza nonviolenta', 'arma nonviolenta' o addirittura 'combattenti nonviolenti'. Si tratta di apparenti ossimori, volti in realtà a esprimere la forza di una forma di lotta disarmata e spesso 'tecnicamente' passiva, che, fuori dal mondo radicale, in Italia non è stata approfondita nella sua originalità teorica, malgrado rappresenti una teoria dell'azione assolutamente caratteristica e distinta da quella cosiddetta pacifista, cui è comunemente e impropriamente apparentata.

Sarebbe però una riflessione utile, perché la storia recente è colma di esempi di violenza per cui occorrerebbe pensare risposte politiche nonviolente e non semplici rimozioni o dissociazioni morali. Non parliamo della violenza criminale o terrorista che attenta all'ordine legale delle istituzioni "nemiche" (quella di Daesh, paradigmaticamente, o – perché no? – della ‘ndrangheta o della mafia), ma della violenza ex lege, che origina dall’effrazione politica dei principi di diritto, dalla violazione delle libertà fondamentali, dall'offesa all'incolumità e alla dignità degli esseri umani senza passare necessariamente dall'uso della forza o della minaccia fisica.

Gli stati europei oggi reagiscono d’istinto e senza intelligenza alle minacce che li assediano e ai costi che l'assedio comporta: chiudendosi su se stessi, alzando muri materiali e mentali contro chi fugge dalla guerre e dalla povertà o contro chi sbarca meno perigliosamente nel nostro pezzo di mondo, con il proprio lavoro e i propri prodotti, e si mette a giocare al nostro stesso gioco. L'Europa è intrappolata dagli stati europei in quelle stesse divisioni da cui li avrebbe dovuti liberare o tenere al riparo. L’Europa è tornata nel suo labirinto.

Ma xenofobia, protezionismo e discriminazioni etnico-religiose non sono solo fantasmi di ritorno: sono (come erano) forme di violenza, perché esprimono un senso di bellicoso pregiudizio o ostilità verso gli "altri", ma innanzitutto perché violano i diritti che le istituzioni dovrebbero riconoscere e garantire, quelli che trovano spazio negli ordinamenti e che sono o stanno per essere sacrificati per supposto realismo, quelli attraverso i quali la politica contemporanea ha provato a emanciparsi dal peccato originale della politica come continuazione o preparazione della guerra con altri mezzi. Diritti quali quello all'asilo e alla tutela umanitaria, alle quattro libertà di movimento, che sono il cuore "costituzionale" della costruzione europea, alla difesa in giudizio, alla non discriminazione e all'uguaglianza giuridica e soprattutto allo stato di diritto, alla rule of law, come diritto umano universale e non solo “nazionale”.

Se la nonviolenza non ha semplicemente il contenuto negativo del non usare violenza, ma è una forma di resistenza a chi la usi, essa non è renitenza, ma resistenza, difesa del diritto e non semplice ripudio del “male”. Quella radicale è una storia in cui la nonviolenza non è stata mai considerata un valore morale non negoziabile, ma una strategia che dovesse porsi un obiettivo politico e quindi rispondere dei propri risultati.

Questa è la ragione per cui, in modo apparentemente paradossale e insopportabile per i pacifisti, i radicali sono stati nello stesso tempo antimilitaristi e atlantisti, antinazionalisti e sionisti, obiettori di coscienza e aperti sostenitori di interventi militari (in Kosovo, in Bosnia, nella prima guerra del Golfo), rifiutandosi di identificare la violenza semplicemente con le armi o con la guerra, e non anche con il loro “verso”, lungo quella frontiera visibile che sempre divide la vittima dal carnefice, chi viola un diritto e chi ne viene privato, chi minaccia e chi è minacciato, chi ammazza e chi viene ammazzato. Una frontiera che la nonviolenza deve presidiare, non dissolvere nell'indistinta ripulsa per l'uso della forza.

Oggi l'Europa è violenta contro i profughi di Aleppo, che scappano da quella che era una metropoli e oggi è una trappola per topi umani all'intersezione dei diversi fronti di guerra siriani. Ma l'Europa violenta è anche stolidamente pacifista - e da parecchi anni - rispetto a ciò che avviene nella macelleria siriana ed equidistante da tutti i macellai, totalmente disimpegnata dal punto di vista strategico, tra una chiacchiera e l'altra sulle "colpe americane" e una scriteriata riconoscenza per il soccorso di Putin ad Assad. La differenza tra la nonviolenza e il pacifismo? Eccola lì, ad Aleppo, a Lesbo e a Bratislava.

Lo spazio della politica nonviolenta è oggi europeo, perché la minaccia più forte alla nostra libertà sono le reazioni dettate dalla nostra paura. Dalla nostra paura del terrorismo, dell’invasione, del declino economico e demografico, dell’impoverimento. Una risposta assolutamente umana e comprensibile, ma foriera di tragedie ben peggiori di quelle che vorrebbe scongiurare. Il sogno di un’Europa pre-comunitaria è per italiani, francesi, tedeschi o polacchi infinitamente più letale di qualunque strategia jihadista.

Allora occorre avere lo spirito pionieristico per guardare oltre l’orizzonte sbarrato dalla paura e per aprire una riflessione concreta su alternative di lotta, sociali e politiche, che potrebbero avere una forza ben più positiva e incisiva delle risposte violente a cui molti vorrebbero aggrapparsi come a un’ancora di salvezza. “Gli stranieri? Fuori!” Fuori da dove? Fuori da cosa?

Oggi è la disperazione a guidare gran parte delle scelte politiche che stanno dietro la nostra emergenza: la disperazione di chi opprime i propri popoli illudendosi di preservare lo status quo e ricavarne i soliti vantaggi; la disperazione di chi scappa, la disperazione di chi non apre le proprie porte. Ma allora cosa può fornire un’alternativa a chi è oppresso e privato dei più elementari diritti umani, a chi vede in pericolo la propria vita e quella dei propri figli e perfino agli stessi oppressori?

È un fatto che i totalitarismi di ogni sorta e colore sappiano “gestire” benissimo la violenza: è il loro linguaggio, è il loro terreno di lotta. Ma così la perpetuano, la cronicizzano. Non la estinguono e non ne rimarginano le ferite. La storia ci dimostra che molto spesso è proprio la nonviolenza che può essere un fattore di crisi, cioè di cambiamento. Un’Europa meno disperatamente violenta nei confronti dei disperati che fuggono dalla guerra e che oggi appaltiamo all’amico Erdogan o lasciamo crepare intrappolati nella Siria di Assad e di Putin (pacifisticamente astenendoci da ogni ipotesi di ingerenza) rimarrebbe certo un bersaglio per i signori della guerra, ma non potrebbe più diventarlo, neppure potenzialmente, per le loro vittime e per milioni di persone che la retorica vittimista dell’islamismo politico vorrebbe aizzare contro di noi.

D’altronde il violento è sempre qualcuno che agisce sotto la spinta di speranze perdute, mentre il nonviolento è spinto da una speranza possibile, da un senso non cinico, ma compassionevole della vita e della sofferenza umana. Per diventarne capaci, dovremmo però ripercorrere il filo delle nostre paure e rintracciarne la matrice in altre, più urgenti, di vita e di morte tra quelli da cui ci sentiamo assediati. Non è retorica, è realtà. Non è morale, è politica. Nel 1938, l’Europa a pochi mesi dalla “pace di Monaco”, durante la Conferenza di Evian, decise prudentemente di non accogliere qualche centinaia di migliaia di profughi ebrei tedeschi e austriaci in fuga dalla persecuzione nazista. Anche allora non sapeva “dove metterli”.

C’è chi certamente osserverà che questa è solo utopia. Ma la violenza è assai più astratta, anche se più rassicurante, della nonviolenza nel suo confronto con la paura. La nonviolenza è più concreta, anche se più impegnativa, più partecipe del comune problema umano di trovare, di fronte al pericolo, una via di scampo e poi di vita nuova.

Questa è l’alternativa a populismi, nazionalismi e protezionismi che infettano l’Europa e la spingono verso la peggiore crisi della sua breve storia unitaria. Ma la nonviolenza ha bisogno di nonviolenti, di organizzazione e di organizzazioni. Di una strategia. Di una convinzione. Di un obiettivo. Costruire ponti e non edificare muri è un slogan che ha un senso se sappiamo che cosa vogliamo unire e cosa non vogliamo dividere. E questa consapevolezza parte da un’idea politica dei diritti umani, delle libertà fondamentali, non solo del dovere di soccorso umanitario.

In questo quadro, ha senso anche la strategia nonviolenta per antonomasia, quella della disobbedienza civile, dell’incarnazione politica del divorzio tra il diritto e la legge, della rappresentazione volontaria e drammatica dell’ingiustizia. Violare la legge, non riconoscerla, non rispettarla, per esigere una legge rispettabile in termini di diritto. Nell'Europa dei muri se ne moltiplicano purtroppo le occasioni, ma anche le possibilità.

La nonviolenza è degli intelligenti, non dei furbi, dei coraggiosi, non dei vili. La nonviolenza non sfascia, ricostruisce. Come diceva Pannella, con un linguaggio apparentemente oscuro, “il nonviolento rischia la vita per non rischiare la morte”, cioè sceglie di mettere a repentaglio la prima per non seminare la seconda e vederla dilagare come una malapianta. Ma questa dimensione e urgenza nonviolenta sembra oggi per lo più estranea a partiti e istituzioni e a tutte le forme di mobilitazione collettiva della politica italiana ed europea. C’è il senso dell’accusa, come nell’antipolitica, non della testimonianza. Dell’estraneità rispetto al potere o dell’autoreferenzialità rispetto agli altri, non della partecipazione. Dovremmo avere come guida la massima per cui non sono i fini a giustificare i mezzi, ma i mezzi a prefigurare i fini. Costruire muri in Europa o altrove non potrà che condurre a rinnovate divisioni, contrasti e violenze.

In questa vecchia e nuova frontiera politica e umana, un ruolo fondamentale è giocato dall’informazione. Oggi come ieri fa più notizia un attentato che uccide decine di persone o un uomo che si fa esplodere in un bar, rispetto all’azione nonviolenta di gruppi organizzati che denunciano, propongono, prefigurano alternative. I missili di Hamas e la buona stampa dei peggiori difensori della causa palestinese guadagnano ad Abu Mazen le udienze in Vaticano negate al Dalai Lama. Chiunque conosca questi meccanismi sa che, anche su scale molto più piccole, è “meglio” lanciare una bottiglia molotov o un anatema razzista, che organizzare un sit-in, un flash-mob, uno sciopero della fame, una disobbedienza civile.

Nell’Europa pacificata del post Guerra Fredda la nonviolenza di Sacharov e dei dissidenti sovietici, di Walesa e di Solidarnosc, di Havel e di Charta ‘77, sembra essere stata seppellita come il reperto di un glorioso passato. Ma il passato è tornato, la nonviolenza ancora no e se ne vede l’assenza. Peraltro, un’Europa che tornasse a immaginare la nonviolenza come risposta politica al rischio della guerra interna e del “default esistenziale” sarebbe probabilmente un’Europa capace di intendere in modo meno alienato le minacce esterne alla propria sicurezza militare e strategica e a ragionare su politiche di difesa comune che implicano appunto, per i popoli e gli stati europei, la consapevolezza di un destino comune.

@carmelopalma
@igorilicboni