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Da qualche giorno il dibattito politico estivo, al netto di Olimpiadi e Referendum, è monopolizzato dalla rivolta dei prof contro i trasferimenti. Eh già, perché con l’entrata in vigore della legge 107 della Buona Scuola che ha permesso la stabilizzazione di migliaia di professori, si è dato seguito anche al piano straordinario della mobilità, che provocherà nelle prossime settimane il trasferimento di circa 20 mila persone dal Sud alle scuole del Nord. 



I motivi sono strutturali. Come ampiamente riportato dal dossier di Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, basandosi sui dati di Tuttoscuola, la “deportazione” denunciata dai docenti meridionali è dovuta dal fatto che solo il 37% degli studenti italiani risiede al Sud, contro il 78% dei professori nati nel meridione. Ne consegue che - se non si vuole rimanere a casa - bisogna fare le valigie ed accettare di spostarsi in una città del Centro o del Nord per garantirsi uno stipendio fisso. 

Della questione del Mezzogiorno se ne discute da sempre, forse male, forse troppo poco - o forse troppo? - ma senza mai trovare una soluzione di lungo periodo che garantisca un futuro ai meridionali, un futuro fatto di stabilità lavorativa, crescita economica e sviluppo umano. Il risultato è che da anni si è re-innescato il flusso migratorio dal Sud al Nord, con migliaia di giovani (compreso chi scrive) che seguendo (solo) il tragitto dei docenti che urlano alla deportazione, si spostano al Settentrione scegliendo un ateneo lontano centina di km da casa nella speranza di trovare poi un posto di lavoro e garantirsi quindi, un futuro dignitoso.

Al netto di condizioni familiari e storie particolari che sicuramente un algoritmo ministeriale non può concepire, c’è una sostanziale differenza (che cresce nel tempo) tra la maggior parte di quei giovani e e quei professori: il reddito. Facciamo un passo indietro. Abbandonando la sfera prettamente scolastica ed abbracciando una dimensione fatta di territori e professioni pubbliche e private, si può facilmente intuire che uno dei drammi principali (dopo quello emozionale s’intende) di chi ha un posto fisso nel pubblico al Sud e che deve spostarsi al Nord, è lo shock economico.

Infatti, prendendo in considerazione la spesa media mensile delle famiglie nelle varie regioni italiane, si scopre quello che sapevamo già: la vita al Nord è più cara della vita al Sud. Sì perché trasferirsi dalla Calabria dove in media una famiglia spende circa 1700 Euro al mese alla Lombardia, dove se ne spendono circa 3000, di Euro, vuol dire bruciare circa il 75% in più del reddito familiare disponibile se quest’ultimo non varia rispetto alla città dove si lavora (e lo stipendio statale - per l’appunto – è ovunque lo stesso).

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Spesa media mensile delle famiglie nel 2015 per regione. Fonte: elaborazione propria da dati Istat.

 

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Scostamenti spesa media mensile delle famiglie Lombarde rispetto alle altre Regioni (2015). Fonte: elaborazione propria da dati Istat.

Discorso diverso invece se cambiando sede lavorativa, oltre al costo della vita, cambiasse anche lo stipendio. Guardando ai redditi da lavoro dipendente degli italiani nel 2014, suddivisi per provincia, si nota subito come ci sia una netta forbice tra le retribuzioni pro capite dei lavoratori residenti al Nord e quelli al Sud. Infatti, risalendo lo Stivale, si vede come lo scostamento percentuale dei redditi dalla media italiana sia sostanzialmente negativo nelle provincie del Mezzogiorno, si assottiglia e cambia segno in prossimità delle provincie del Centro e cresce fino alla provincia di Milano: il reddito medio pro capite di un lavoratore della provincia di Crotone, per esempio, è la metà dello stipendio medio di un collega della provincia di Milano, e con buona fortuna e merito, anche lo stipendio di quei ragazzi del Sud che hanno studiato al Nord, a differenza dei professori in questione, seguirà questa regola.

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Reddito pro capite da lavoro indipendente suddiviso per provincia (2014). Fonte: elaborazione propria su dati MEF, dichiarazioni 2015.

 

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Scostamento redditi pro capite suddivisi per provincia rispetto alla media italiana. Fonte: elaborazione propria su dati MEF, dichiarazioni 2015.

 

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Scostamento redditi pro capite suddivisi per provincia rispetto alla provincia di Milano. Fonte: elaborazione propria su dati MEF, dichiarazioni 2015.

Ecco perché lasciare il mezzogiorno non significa solo rinunciare agli affetti, ma anche a quel combinato (costo della vita + stipendio statale) che fa sì che il potere d’acquisto per uno di quei docenti sia maggiore in Calabria rispetto alla Lombardia. 

C’è una soluzione a tutto questo? Scartando evidentemente la possibilità di spostare gli studenti al sud, ed invitandovi a leggere Terroni 2.0, non rimane altro che suggerire per i professori il ritorno alle gabbie salariali. 

Abolite ufficialmente nel 1969 a seguito di lunghe proteste dei sindacati, le zone salariali servivano a discriminare la retribuzione statale in base al costo della vita. 

Perché non tornare quindi ad un sistema che preveda anche queste differenze territoriali?

Con stipendi pubblici che recepiscano gli effetti del libero mercato non solo restituiremmo maggiore giustizia sociale fra i dipendenti del pubblico e privato (al Nord), ma eviteremmo anche quelle storture (al Sud) per cui purtroppo per alcuni l’insegnamento è conseguenza di nessuna alternativa lavorativa. Scommettiamo che dopo i trasferimenti dal Sud al Nord saranno volontari?