Caporalato

Tra i tanti problemi - che sono anche opportunità di cambiamento - legati all'immigrazione in Italia, emergono quelli attinenti le condizioni di lavoro dei tanti operai stagionali occupati nelle nostre campagne, da Bolzano alla zona della Franciacorta, al Basso bresciano, agli agrumeti siciliani.

Negli ultimi anni le notizie hanno spaziato dai casi di lavoratori morti letteralmente di stanchezza sotto il sole, alle proteste in piazza contro il razzismo, alla ‘reazione’ confusa di tanti cittadini italiani alle prese con una presenza percepita come estranea. Da ultimo, qualche settimana addietro, un immigrato africano morto a Rosarno in Calabria, vittima di un sistema di lavoro e di accoglienza che non vuol davvero fare i conti con la realtà.

Di certo, il pur scarso dibattito pubblico sul tema è viziato alla radice se ci si concentra – come nel caso su citato - sulla legittima difesa o meno del carabiniere che, per evitare l’ennesima pugnalata in testa, spara, o sulla capacità/possibilità di integrazione stabile in Italia, in Calabria, di immigrati che non hanno per nulla intenzione di fermarsi da noi ma che esercitano un nomadismo da lavoro teso ad accumulare il più possibile per giungere, come meta finale, in Nord Europa.

Il tema, io credo, è squisitamente economico-sociale – e, quindi, giuridico – e riguarda la domanda e l’offerta di lavoro nel comparto agricolo, che avrebbe bisogno di norme più aderenti a una realtà che spontaneamente si è andata a formare, e non dell’imposizione sorda di un ‘dover essere’ ideologico non rispondente, probabilmente, all'interesse di nessuna delle parti in causa. In tal senso, la questione di fondo è molto più complessa di quanto la pur apparentemente 'giusta' impostazione lavoristica di matrice classista possa rappresentare; e ciò perché in questi casi non funziona la retorica manichea del tipo bianchi/neri; proprietari terrieri/lavoratori; caporali/schiavi; servi/padroni.

In realtà, ricette semplici non ce ne sono, e, anche a proposito del più generale problema dell'immigrazione in Italia, occorre offrire al pubblico dibattito profili di verità, pragmatismo e concretezza ad oggi obliati da una narrazione che oscilla tra il netto rifiuto razzista e l’accoglienza e la difesa tout court degli interessi di chi è rappresentato - spesso senza rendersi conto della ghettizzazione così operata – come 'resto economico' che si trova dalla parte sconfitta della Storia, materiale umano - e da 'diritti umani'- spogliato 'per protezione' di quei diritti e doveri contrattuali che richiedono sempre responsabilità individuale e che fanno del ‘lavoratore’ qualcosa in più di un semplice destinatario di sostegno sindacale e carità politica.

Quali, allora, i punti della questione? Eccoli.
1. i 'neri' di Rosarno (come quelli pugliesi, campani, laziali o bresciani) hanno nella quasi totalità dei casi il permesso di soggiorno, e per la massima parte sono avviati al lavoro con un contratto formalmente comunicato ai Centri per l’Impiego; il problema più grande, quindi, non è il lavoro nero ma quello grigio: paga a cottimo e orario legato all'obiettivo delle cassette da riempire per più guadagnare;

2. I caporali (parliamo di intermediazione illegittima nell'offerta di manodopera così come sanzionata dalla Legge Biagi e di sfruttamento - mantenuto con violenza e minaccia - previsto dall’ art. 603-bis c.p.) sono quasi tutti neri – lo dimostrano i deferimenti all’autorità giudiziaria formalizzata dalle task force (carabinieri, polizia ed ispettori del lavoro) operative nei nostri territori – e si comportano da capibanda che organizzano le campagne agricole dei migranti in tutta Italia, prendono accordi con gli agricoltori e, a volte, direttamente con le organizzazioni criminali presenti nel territorio;

3. I neri, quindi, fanno sostanzialmente i nomadi, spostandosi nell’anno agricolo per partecipare alle diverse raccolte: di certo non vogliono diventare stanziali in Calabria o in Puglia e, per questo, non hanno interesse specifico ad una situazione abitativa che concepiscono come momentanea;

4. Il made in Italy agricolo si fonda su questo sistema fatto di basso costo del lavoro ed alta produttività; basta chiedere agli australiani (sono facilmente reperibili inchieste giornalistiche mirabili) che ci accusano di distruggere i loro raccolti, ad esempio di pomodori, per il fatto che i nostri costano meno dei loro nonostante il trasporto per 16.000 km. Così, dopo oltre due anni di indagini, l’Australia ha deciso di imporre dei dazi antidumping alle aziende italiane produttrici di conserve di pomodori. L’accusa alle nostre aziende è quella di sfruttare il lavoro non correttamente formalizzato dei tanti immigrati presenti nel territorio;

5. I neri non scendono in piazza per rivendicare i diritti sindacali – per altro poco congeniali al loro obiettivo teso al 'mordi e fuggi' della raccolta stagionale – ma solo quando, come nel caso del brutto episodio che ha coinvolto un carabiniere chiamato a sedare una rissa nella tendopoli allestita come campo d’accoglienza, l'autogestione del sistema viene turbata da una intromissione concepita come esterna ed illegittima. Ciò fa il paio con la bassissima collaborazione offerta agli organi di vigilanza, in quanto tale omertà è funzionale a non sconvolgere un sistema che - in qualche modo e paradossalmente - è congeniale alle loro esigenze;

6. Le autorità, come abbiamo detto, stanno comunicando le notizie di reato per caporalato ma difficilmente i processi condurranno a sentenza, posto che senza la collaborazione dei connazionali non si potrà provare lo stato di soggezione psicologica, di intimidazione e di minaccia che è tipica della fattispecie e che, forse, non è presente nella maggioranza delle situazioni sociali emergenti.

A parte la delineazione dei precedenti nodi problematici occorre farsi anche una domanda precisa: la 'Ndrangheta, la Camorra, la Mafia c'entrano? Certo che sì! La criminalità lucra sui fenomeni non organizzati e legalizzati, costretti perciò a non emergere perché altrimenti oggetto solo di repressione e non di normalizzazione.

Cosa fare allora? Di certo la soluzione penalistica manettara, in questo come in altri casi, non appare la vera soluzione. Si dovrebbe gestire il fenomeno attraverso percorsi di emersione tesi a riconoscere le specificità delle raccolte stagionali – anche alla luce del peso economico gravante sulle aziende dai bassi prezzi imposti dalle multinazionali del settore - e tutelare il nomadismo dei lavoratori, attraverso la gestione dignitosa, magari messa a reddito, dei centri di raccolta. Si tratterebbe, inoltre, di spingere le forze sindacali verso la stipula di veri e propri Accordi Territoriali, capaci di disciplinare le specificità, anche salariali, delle diverse stagioni di raccolta.

Ma per fare questo ci vorrebbe politica vera e non populistica, anche e soprattutto regionale, e proprio qui casca l'asino e prolifera il malaffare; un malaffare che, alla lunga, non potrà non andare a danno delle nostre aziende agricole, sempre più abituate ad eludere ed aggirare le norme vigenti intuite come illegittime e vessatrici e, quindi, in ultima analisi, sempre più incapaci – anche e soprattutto per responsabilità pubblica - di normalizzare e programmare contrattualmente e legalmente la propria forza lavoro.

Su tale tema, da ultimo, sembra intervenire nella direzione auspicata il Governo che, attraverso la promozione e la stipula di un Protocollo Sperimentale contro il caporalato, firmato il 27 maggio 2016 anche dalle associazioni, dai sindacati e dalle imprese agricole, mira a riconoscere la specificità del settore e, al di là della necessaria azione repressiva, tenta di coniugare libertà e dignità.

Attraverso il sistema della bilateralità e, quindi, lasciando spazio all'autonoma organizzazione privatistica delle gestione, si promuove la conclusione di accordi tesi a risolvere la problematica del trasporto della manodopera da e verso i luoghi di lavoro. Si decide, inoltre, di dar vita a forme di intervento legali nel collocamento della manodopera, anche per mezzo di agenzie autorizzate, e di sperimentare l’impiego temporaneo di immobili demaniali e di beni confiscati alle mafie per l’accoglienza dei lavoratori stagionali e per dar vita a presidi medico sanitari, anche mobili, in modo che sia assicurato l’intervento di prevenzione e di primo soccorso.

In estrema sintesi, l’unica strategia che potrà davvero essere efficace, anche e soprattutto nell’interesse del Made in Italy agricolo e delle sue eccellenze, è quella – mai sperimentata fin ora – di favorire, promuovere e consolidare la libera attivazione di una rete di interventi territoriali specifici da parte di tutti i soggetti interessati, in un’ottica di responsabilizzazione reciproca che non potrà, alla lunga, che passare attraverso la strutturazione formale di organi di rappresentanza interni al variegato mondo degli immigrati stagionali, anche al fine di pervenire ad una individuazione non umanitaria, ma contrattuale e civile, di diritti economici e sociali riconosciuti a pari e non a paria.