South China Sea

Una farsa, una cicatrice, un oltraggio. La decisione della Corte di arbitrato internazionale dell’Aja di accogliere il ricorso filippino contro l’espansionismo cinese nei mari del Sudest asiatico, definendo illegittime le pretese di sfruttamento economico mosse da Pechino, nella Repubblica popolare non è stata certo accolta con eccessi di diplomazia.

Lo stesso ministro degli esteri Wang Yi, solitamente piuttosto pacato, non ha usato parole leggere per comunicare l’ira dei vertici comunisti, lasciando intendere che il suo governo non si piegherà al verdetto dei giudici internazionali.

E a testimonianza di quanto il clima si sia surriscaldato, e di come sia stato recepito lo “schiaffo” a Pechino, la BBC, nei minuti in cui ha dato la notizia, è stata letteralmente oscurata sul territorio cinese. Voce grossa e censura lo lasciano intendere: la decisione di ieri segna davvero un delicato spartiacque nella vicenda che, ormai da anni, vede la Repubblica popolare contrapporsi ai suoi più deboli vicini sud-orientali (oltre alle Filippine anche il Vietnam e la Malesia) nel rivendicare il possesso (e gli interessi) su larga parte del Mar cinese meridionale. Una pretesa che si regge su presunte eredità storiche (naturalmente imperiali, con buona pace della rottura con il passato operata dalla rivoluzione comunista), secondo cui le isole, le isolette e gli scogli oggi al centro della contesa - che Pechino ha fisicamente unito, con un’invidiabile opera di ingegneria geopolitica, tracciando la cosiddetta “linea a nove punti” - sarebbero “da sempre” di proprietà cinese.

Dal punto di vista dell’esattezza storica, si tratta di una libera reintepretazione del contesto imperiale e pre-moderno, in cui il concetto di “sovranità” si declinava in modi assai diversi rispetto al contesto contemporaneo, dominato dagli Stati-nazione. Ne ha scritto di recente uno dei maggiori storici della Cina, il professor Timothy Brook, in un saggio da poco tradotto in italiano da Einaudi che prende spunto dal rinvenimento di un’antica mappa di quel mare conteso rinvenuta nella biblioteca Bodleiana di Oxford: Mr.Selden’s Map of China. Lettura piacevole e istruttiva, per chi volesse approfondire la questione in un’ottica di “lunga durata”.

Tornando all’attualità, però, cosa c’è da aspettarsi ora? Come detto, i leader comunisti non sembrano intenzionati a interrompere la progressiva occupazione del “cortile di casa” cinese. Nonostante la pronuncia dell’Aja sia vincolante, essendo la Cina firmataria della Convenzione sul diritto del mare su cui la Corte ha basato il proprio verdetto, il realismo induce a credere che sarà difficile che Pechino ritiri le proprie pedine dallo scacchiere.

Con gli Stati Uniti alle prese con la campagna presidenziale, difficile che Washington (naturalmente identificata dalla propaganda cinese come la potenza manovratrice dei “piccoli” vicini asiatici) si faccia sentire: non è certo interesse americano aprire un conflitto nei mari orientali in questo momento (e, come sottolineava oggi tra gli altri il South China Morning Post, gli Usa non hanno mai ratificato la Convenzione sul mare...).

E di certo la Cina gioca da una posizione di forza: può permettersi il lusso di ignorare la Corte e continuare l’accerchiamento. Ma il gioco non sarà più lo stesso. La condanna internazionale, se anche fosse destinata a rimanere nell’ambito della formalità - come larga parte del diritto internazionale, peraltro - squarcia il velo delle ambizioni di Pechino, denunciandone per la prima volta pubblicamente l’illegittimità. Appare insomma nitida la duplice strategia della RPC per impostare un nuovo attivismo sulla scena mondiale, finita l’età dell’ombra.

Dal 2008 in poi, la nuova Cina ha ritenuto di essere pronta a tornare in scena come potenza: sullo scenario globale, nelle arene internazionali e nei rapporti con gli altri big, si è mostrata come un partner affidabile e responsabile, pur con tutti i limiti di un sistema istituzionale non democratico; sul piano regionale, invece, ha indossato il volto “assertivo” della potenza asiatica nostalgica di un passato egemonico.

Il conflitto mai sopito con il Giappone, i rapporti difficili con l’India (in cui la questione tibetana gioca ancora un ruolo chiave) e infine le frizioni crescenti con i vicini marittimi. Un doppio livello che è stato reso possibile dalla accondiscendenza dei grandi, che per il bene dell’ordine mondiale tollerano l’espansione dell’influenza della Cina nel “suo” continente.

Ma quanto saranno disposti gli Stati Uniti a sopportare la resurrezione della potenza cinese? E quanto in là spingerà Pechino l’asticella delle proprie pretese? I venti nazionalisti che soffiano attorno alla Città Proibita nell’era di Xi Jinping - con lo spirito patriottico che, in un paese sempre più socialmente diversificato, ha sostituito come collante collettivo l’utopia comunista di Mao e la retorica della crescita economica di Deng - non promettono nulla di buono, così come il silente conflitto tra Marina ed Esercito, di cui poco o nulla si sa, ma che promette di essere una delle faglie più delicate su cui dovrà muoversi il potere cinese nei prossimi anni, a partire proprio dal calderone del mare conteso.