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Per anni, dopo l'11 settembre 2001, l'Occidente risvegliatosi dall'illusione della pace perpetua si è dolorosamente interrogato sulle ragioni del fragoroso ricominciamento di quella storia che, dopo il crollo del Muro di Berlino e del comunismo, secondo autorevoli pareri doveva considerarsi "finita". E se la storia ricominciava riaprendo le ferite dell'ordine politico post-coloniale e smentendo la profezia di quella sorta di pacificazione universale assicurata dal trionfo dell'ordine politico liberale, allora - venne da concludere a molti - non era sbagliata la profezia, ma era sbagliato l'Occidente.

Così si affermò la vulgata, non solo e sempre meno "di sinistra", secondo cui tutto quello che bolliva nel pentolone della frustrazione islamica fosse, alla fine, addebitabile alle colpe, alle mancanze o alle inadeguatezze delle élite politiche e economiche occidentali che, manovrando i driver della globalizzazione, dietro un irenismo di facciata, continuavano a soggiogare masse diseredate e disponibili a votarsi a sanguinosi liberatori. Osama, insomma, come una sorta di Che Guevera.

Ben pochi accettarono che il nazionalismo e l'internazionalismo islamista, terrorismo compreso, nelle sue diverse declinazioni, fosse un prodotto endogeno e non reattivo e rappresentasse una misura della realtà interna al mondo politico musulmano e dei ritardi e delle paranoiche regressioni delle sue élite. Dietro al-Qaida e tutto quel che ne è seguito, fino all'islamizzazione coatta della Turchia, si continua a vedere l'ombra di un "errore" o di una "colpa" delle vecchie potenze occidentali, Usa in primis.

Dalla colpa di avere sostenuto la resistenza dei mujaheddin contro il regime filosovietico di Kabul, a quella di avere destabilizzato il precario equilibrio irakeno con la cacciata di Saddam, fino a quella di avere ingenuamente parteggiato per le primavere arabe - questa è l'accusa - l'Occidente e, tipicamente, gli "americani" hanno sempre sbagliato tutto. Cosa vera, forse, nel senso di non avere conseguito gli obiettivi che si erano prefissati e di non avere arginato gli effetti dell'esplosiva entropia dell'universo islamico, ma non certo di averla causata e determinata, per vedersela poi sfuggire tragicamente di mano.

L'islamismo - in tutte le sue manifestazioni di ostilità politica o criminale - non è un "mostro" prodotto nei laboratori occidentali, ma il figlio naturale di un mondo che, perso il proprio posto nella geografia globalizzata, ha scelto nichilisticamente di rinnegarla e di rinnegare, con essa, anche la parte della propria storia troppo compromessa con la modernità.

Rispetto al risorgente nazionalismo che torna a suppurare dalle ferite aperte della società globalizzata dal suo lato un tempo "vincente" - cioè l'Occidente liberalcapitalistico euroamericano - l'analisi rischia di inciampare nello stesso equivoco, nella stessa sindrome auto-accusatoria, nello stesso delirio di colpa. Perché vince la Brexit? Perché spopola Trump? Perché la Francia premia la reazione vandeana? Perché l'est europeo affrancato dall'Ue e protetto dalla Nato nel suo cammino verso la prosperità e la libertà politica parla di Berlino come di un'altra Mosca, mentre la vera Mosca postcomunista ma risovietizzata da Putin sparge a pieni mani veleni e rubli antieuropei per tutto il continente, e anche oltre?

Perché il nazionalismo, con i suoi immancabili corollari - la xenofobia, il protezionismo, il mito delle origini, i vagheggiamenti autarchici - sbanca di qua e di là dell'Atlantico? Ovvio, per colpa di Obama e della Merkel! Cioè per colpa dell'America e dell'Europa per quello che sono e non hanno saputo essere di meglio e di più, per conquistare i cuori del popolo sofferente, del ceto medio proletarizzato, degli "indigeni" minacciati dall'invasione straniera. Il nazionalismo, secondo questa lettura, non è più la malattia idiopatica dell'anima europea, da cui l'integrazione politica ed economica doveva guarirla o almeno curarla. No, è il sintomo del fallimento dell'integrazione mancata o dell'inefficienza dell'integrazione riuscita. C'è in questa "diagnosi" la stessa superficialità o la stessa disonestà propagandistica di chi descrivesse l'antisemitismo tedesco che portò alla Shoah come un effetto collaterale della pace di Versailles. La frustrazione va compresa e se possibile prevenuta, non soddisfatta con il sacrificio, fosse pure simbolico, di capri espiatori preconfezionati.

L'Europa, l'Europa burocratica, l'Europa dirigista, l'Europa delle banche, l'Europa come maschera dei "poteri forti" del continente, è oggi uno di questi capri espiatori, comodi non solo per i nazionalisti, ma per chiunque pensi - sono sempre di più - che non si possa che essere furbamente corrivi con il nuovo "spirito della storia" che il populismo nazionalista incarna. Se l'Europa avesse già fatto un passo avanti, auspicabile e auspicato, sull'integrazione politica, economica, militare e strategica le accuse di Johnson e di Farage ne sarebbero uscite rafforzate presso l'opinione pubblica nazionalista.

L'Europa a metà del guado è un problema o una vergogna per gli europeisti, non un'offesa per gli antieuropeisti, che a metà di quel guado la vedrebbero volentieri affogare, purché non raggiunga la loro sponda. Il nazionalismo che oggi conquista e affligge la gran parte degli stati del continente è una delle "voci di dentro" che risuona dal profondo della loro storia "pre-europea" e forse "post-europea". Solo i fanatici possono credere e i furbi fingere di credere alla balla che il fantasma che torna ad aleggiare sull'Europa sia responsabilità del grigio Juncker.

@carmelopalma