Boris Johnson

Due giorni dopo la Brexit, la decisione degli elettori del Regno Unito di lasciare l'Unione Europea, occorre rapidamente decidere cosa la stessa Ue e i suoi 27 (ormai) paesi membri debbano fare nei prossimi giorni e settimane.
Reputo un errore il percorso attraverso il quale Cameron ha portato al voto i suoi connazionali, penso che la campagna Leave sia stata fallace e autolesionista, osservo che un voto sul futuro in cui gli anziani votano in blocco contro la scelta dei giovani mostri, come minimo, che qualcosa non ha funzionato.

Cameron ha costruito la sua leadership su un euroscetticismo nutrito dalla caricatura grottesca dell'Unione fatta da buona parte dei media britannici; su questa base ha fatto uscire i conservatori dal gruppo dei popolari al Parlamento europeo: le sue parole, sacrosante, ma tardive, sulla necessità per l'UK di rimanere nella Ue immagino siano suonate per questo false e poco credibili alle orecchie dell'opinione pubblica UK.

I liberali porteranno sempre Westminster nel cuore, ma il futuro ormai si gioca a Bruxelles. Il tema non è certo cercare una velleitaria vendetta o punizione per il popolo britannico, cui tutti restiamo e resteremo legati, ma, per chi vuole costruire l'Europa del futuro, di come reagire nell'interesse dell'Unione.

Per dirla col Manzoni, questo interesse coincide con l'opposto del: "troncare, sopire". Il referendum britannico ha alzato al massimo livello politico lo scontro tra "aperto" e "chiuso", che divide non solo l'Europa. Si è aperta definitivamente la competizione elettorale tra chi vuole il ritorno ai nazionalismi e chi, al contrario, vede nell'Unione la via maestra per dare sicurezza agli europei e un futuro più solido ai nostri principi di libertà e diritto. Tra chi pensa che i singoli stati debbano recuperare la propria sovranità e chi ritiene che l'unico modo di esercitarne una, in un mondo sempre più condizionato dalle superpotenze asiatiche, sia quello di condividerla dentro l'Unione.

A questa politicizzazione dello scontro sul futuro dell'Unione non si può e neppure si deve rinunciare. Per questo bisogna insistere affinché, salvo improbabili ribaltoni, la decisione dell'uscita diventi immediatamente operativa secondo le regole previste dal trattato.

Dobbiamo impedire che si faccia strada l'idea che sia possibile fare free riding sul mercato unico, cioè goderne i benefici scaricando sugli altri l'onore politico di mantenerlo in vita. Quello dei britannici che lasciano l'Unione seguendo il pifferaio Farage e i suoi slogan violenti ma al contempo proseguono il loro "business as usual" con il continente sarebbe un insostenibile incentivo all'azzardo morale per tutti gli altri nemici della società aperta e dell'Europa.

O, peggio ancora, darebbe l'impressione che l'Unione si piega alla volontà di breve periodo di coloro che potrebbero vedere i loro affari e i loro investimenti a rischio durante la necessaria rinegoziazione degli accordi tra UE e UK (almeno finché il Regno resterà unito).

Già sembra di sentire, durante le presidenziali francesi, la signora Le Pen tuonare: "Guardate, gli inglesi hanno riconquistato la loro indipendenza nazionale e per loro non è cambiato nulla, perché l'Europa delle banche e degli affari non avrà mai il coraggio di mettere in discussione un euro di profitto in nome dei valori". E poi Salvini, Orban, Hofer e via di questo passo.

Sarebbe suicida assecondare l'atteggiamento dilatorio di Boris Johnson che, avendo incassato il risultato politico con la sua campagna contro Cameron e contro Bruxelles, oggi vuole allontanare il momento della responsabilità politica della sua propaganda. A febbraio in molti a Bruxelles hanno pensato che un accordo al ribasso con Cameron sulle condizioni dell'adesione britannica sarebbe servito a qualcosa, ma avevamo visto giusto a pensare che si sarebbe rivelato non solo un po' umiliante, ma politicamente inutile. Questo errore non va ripetuto "troncando e sopendo" uno scontro politico ormai aperto, che si può vincere, ma non si può eludere.

@bendellavedova