Cameron Johnson

Sono stati almeno tre, negli ultimi 25 anni, i referendum che, se fossero andati in modo di poco diverso, avrebbero potuto cambiare la storia del costituzionalismo e delle istituzioni dell’Occidente.

Il primo è il referendum francese del 1992 sul trattato di Maastricht, che di fatto dette il via libera all’Unione Europea come la conosciamo oggi; il secondo è il referendum per l’indipendenza del Québec nel 1995, che avrebbe potuto sdoganare il concetto di secessione; il terzo è il referendum per l’indipendenza della Scozia del 2014 che avrebbe sortito un effetto simile, ma evidentemente toccando noi europei ancor più da vicino.

Ebbene, tutte le volte gli elettorati si sono fermati a pochi, se non a pochissimi, voti dall’affermare un esito clamoroso e rivoluzionario rispetto a chi vede come definitivi ed ineluttabili i vincoli nazionali ed i processi di centralizzazione – l’idea, in altre parole, che le appartenenze statuali consolidate possano essere superate solo verso l’alto, cioè verso progetti istituzionali ancora più “ambiziosi” e smisurati. Malgrado indipendentisti e sovranisti abbiano giocato quelle partite fino in fondo, risicate maggioranze hanno finito per arrendersi alla tirannia dello “status quo” ed alla sua gigantesca macchina di propaganda mediatica, culturale e persino morale.

Vedremo se, anche nel caso del referendum sul Brexit, alla fine prevarrà la paura di fuoriuscire dai percorsi predefiniti oppure se i britannici avranno il coraggio di concepire l’inconcepibile e di varare uno strappo storico con l’Unione Europea.

Lo squilibrio nelle forze in campo è stato evidente, con quasi tutti i partiti e la maggior parte dei media e degli interessi organizzati schierati per il Remain.
Eppure, stando a molti sondaggi, nel momento in cui la campagna è entrata effettivamente sui temi di merito, le ragioni del Leave hanno guadagnato sempre più consenso, portando i sostenitori del Brexit avanti nella maggior parte dei sondaggi.

Il pattern che si è visto in altre occasioni, incluso il referendum scozzese, è stato però che l’avanzamento nei sondaggi della posizione “di cambiamento” fosse poi seguito proprio negli ultimi giorni da un “rimbalzo” della posizione “di status quo”, che in questo caso potrebbe essere agevolato anche dall’emozione per l’assassinio della parlamentare Jo Cox. Gli eventi di Leeds di giovedì scorso sono stati una tragedia immane, per l’ignobile violenza, per l’assurda perdita umana, ma anche per la drammatica alterazione di una campagna referendaria che ha visto toni duri, ma anche argomentazioni alte.

La campagna per il Leave si è trovata a dover confutare – e lo ha fatto in maniera convincente – le “semplificazioni” che sono venute da David Cameron e dai sostenitori del Remain, prima tra tutte il concetto che il voto per il Brexit fosse una scelta di isolamento economico e culturale della Gran Bretagna. In realtà il vero argomento del referendum non è l’integrazione economica e culturale tra il Regno Unito ed il continente, bensì il senso di un’unica entità regolatoria centrale con poteri di supremazia su mezzo miliardo di persone.

Da questo punto di vista, malgrado l’indispensabile lavoro svolto dagli euro-contrari della prim’ora, come il leader dell’UKIP Nigel Farage, non si può negare che la vera svolta qualitativa della campagna per il Leave si sia verifica con la discesa in campo di vari esponenti del Partito Conservatore ed in particolare dell’ex.-sindaco di Londra Boris Johnson. La leadership di Johnson è stata decisiva per conferire alla campagna per il Leave un chiaro connotato liberale e thatcheriano, in grado di mettere in secondo piano posizioni più nazionaliste.

Oggi, del resto, appare sempre meno credibile la posizione, diffusa in Italia in alcuni ambienti di orientamento liberale, che l’Unione Europea rappresenti una sorta di ultima trincea contro il prevalere di posizioni di populismo estremo, marcatamente anti-mercato – che debba esser tollerata come un male necessario perché rimpiazzabile solo da mali peggiori.

Il fatto è che l’Europa non ha bisogno di un “liberalismo” che si accontenti di compartecipare alla gestione ragionieristica del declino e fondamentalmente di dare calci al barattolo, sperando di rimandare di qualche anno il momento in cui lo scollamento tra le élites e la società condurrà ad un “regime change”. L’Europa ha bisogno, al contrario, di leader che, per usare le parole di Margaret Thatcher, abbiano il coraggio di “portare la libertà all’offensiva”, operando i necessari strappi ideologici con il mainstream politico e rivendicando la vocazione rivoluzionaria ed autenticamente “popolare” della battaglia contro lo statalismo e la centralizzazione.

Come ha affermato Boris Johnson nel suo “Cosmopolitan and Liberal Case to Vote Leave” – probabilmente il suo più possente discorso in tutta la campagna – “il Brexit è adesso il più grande progetto di liberalismo europeo, mentre l’Unione Europea, malgrado gli alti ideali con cui è iniziata”, è oggi l’ancien régime”. Johnson non solamente ha delineato la sua visione di un Regno Unito indipendente come quella di una società aperta, di un paese inclusivo e plurale, ma ha anche chiaramente spiegato come liberi da lacci e lacciuoli di Bruxelles, i britannici potranno rafforzare la propria posizione nello scenario economico globale. L’Unione Europea ha finora osteggiato i grandi trattati di libero scambio. “Ha fatto accordi con San Marino e con l’Autorità Nazionale Palestinese” – spiega l’ex-sindaco di Londra – “mentre non li ha fatti con l’India, la Cina o l’America”, in quanto è ostaggio dei sindacalismi di vari paesi membri.

Per Boris Johnson l’UE è evidentemente un freno che impedisce ai business britannici di accedere a tanti mercati emergenti e di partecipare a pieno titolo ai vantaggi della globalizzazione.

Sulla stessa linea “Brexit: the Movie”, il film-documentario della campagna, talmente cristallino nella sua presentazione delle ragioni liberiste a favore dell’indipendenza britannica che la rivista Newsweek ha definito come la prospettiva del Brexit come “il sogno bagnato dei libertari”.

Insomma, in un continente che appare sempre più cupo, dove l’unica alternativa sembra essere tra tecnocrazie e populismi, c’è disperatamente bisogno di uno shock liberale ed il Brexit rappresenta oggi l’unico progetto politico in grado di aprire una finestra di opportunità per le idee di libero mercato comparabile con la rivoluzione thatcheriana o con il crollo del Muro di Berlino nel 1989.

Allo stato attuale, la principale arma argomentativa a favore del Remain sembra il rischio di “contraccolpi”, contro i quali hanno messo in guardia il premier Cameron e molti “esperti”, tanto nel Regno Unito quanto nel Continente.

È inutile nascondersi dietro ad un dito; alcuni contraccolpi ci saranno. I danni fatti in questi anni dall’Unione Europea - sia per le dinamiche di dipendenza e di azzardo morale che ha innescato, sia in termini di avvelenamento dei rapporti tra i popoli europei – non potranno essere rimediati in poche settimane. La possibilità di trattative “incattivite”, di ritorsioni protezioniste e di un’accentuazione della crisi economica dei paesi periferici, con conseguenze più generali sulle prospettive di crescita di breve periodo del continente, non possono certamente essere escluse.

Tuttavia il progetto dell’Unione Europea è strutturalmente fallato ed il tentativo di procrastinare la resa dei conti è solamente destinato a peggiorare le cose. Ogni anno di tempo in più concesso all’UE significherà solamente più spesa, più debito, più trasferimenti di risorse pilotati politicamente e più scollamento tra le scelte di governo operate per mantenere il consenso e gli effettivi fondamentali dell’economia; significherà, in definitiva, continuare ad alimentare una gigantesca bolla politica che produrrà danni tanto maggiori, quanto più tardi esploderà.

In ogni caso, i “rischi” immediati del Brexit non possono nemmeno essere strumentalmente sopravvalutati. Certo, da Berlino e da Bruxelles, in questi mesi sono arrivate minacce non troppo velate nei confronti dei britannici. Tuttavia l’obiettivo di tali minacce è prevalentemente funzionale ad influenzare il voto referendario. Una volta che il Leave avesse vinto, l’Europa sarebbe costretta a seppellire l’ascia di guerra ed a negoziare in maniera pragmatica.

Non solo in Inghilterra vivono e lavorano milioni di cittadini del continente, ma un Regno Unito indipendente sarebbe il primo “mercato estero” dell’Unione Europea.
È assolutamente impensabile, in queste condizioni, che l’Europa pensi di affrontare l’inquilino di Downing Street a muso duro. E la volontà dei britannici, del resto, è quella di mantenere forte il legame economico e culturale con il continente, secondo il modello vincente di Svizzera e Norvegia.

La rottura dell’UE è un fatto senza precedenti e quindi sarebbero tante le questioni da discutere sul piano economico, legale ed istituzionale. Tuttavia è una particolare fortuna che questo percorso inesplorato sia inaugurato proprio da un paese politicamente stabile e ben governato – da sempre il modello per eccellenza della liberaldemocrazia. Che al tavolo delle trattative ci sia David Cameron od il suo possibile successore Boris Johnson, possiamo star certi che la transizione verso l’indipendenza britannica avverrà in modo non troppo accidentato e potrà rappresentare il solco nel quale successivamente potranno muoversi anche altri stati che desiderassero fuoriuscire.

Giovedì 23 Giugno potrebbe nascere un’altra Europa. Non l’”altra Europa” di Vendola e di Tsipras che chiedono solo di avere ancor di più dell’Europa che già c’è: più intervento centrale, più dipendenza, più redistribuzione. L’”altra Europa” che potrebbe nascere dal Brexit è qualcosa di qualitativamente molto diverso; è un’Europa delle democrazie e delle diversità, un’Europa plurale e competitiva tenuta insieme non dalla supremazia di un superstato, bensì da relazioni orizzontali di collaborazione pacifica e libero scambio. Un’Europa, almeno in linea di principio, un po’ più liberale. Incrociamo le dita.