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Più che di un paese spaventato dall’eventualità di diventare terra di transito incontrollato per migranti e profughi, le elezioni presidenziali austriache raccontano la trappola letale di quel bipolarismo sistema/antisistema al quale molte democrazie europee si stanno obtorto collo adeguando da un decennio a questa parte.

La Große Koalition tra socialdemocratici e popolari che governa l’Austria non ha l’appeal di quella tedesca, soprattutto non è guidata da uno statista carismatico della caratura di Angela Merkel, e i suoi esponenti sono in linea generale identificati come vecchi politicanti stanchi e malmessi.

Ma è l’esistenza stessa di una Große Koalition a esaurire le alternative elettorali, e a costringere gli elettori a orientarsi, per esprimere un malcontento che può essere anche fisiologico e razionale, verso opzioni populiste e antisistema. E infatti il processo di erosione della coalizione dei popolari e socialdemocratici era già in corso da anni, l’emergenza migranti non ha fatto che accelerarla facendo esplodere i consensi del FPÖ di Heinz-Christian Strache e del candidato alla presidenza Norbert Hofer, che del suo partito incarna l’immagine più rassicurante e colta, ma i numeri di Van der Bellen (Verdi) e dell’indipendente Irmgrad Griss (sostenuta anche dai liberali di Neos) che si contendono un posto al ballottaggio rende la misura di come gli austriaci stiano cercando non tanto e non solo di difendere il Brennero dall’assalto dei profughi, quanto di trovare alternative al governo in carica e di esprimere un deciso malcontento verso di esso.

Oggi i partiti che governano l’Austria insieme superano di poco il 20% dei voti, nessuno di loro andrà al ballottaggio, e più di un elettore su tre ha votato il candidato dell’estrema destra. In mezzo, due candidati che hanno saputo raccogliere quasi il 20% circa dei consensi ciascuno, mentre l’Austria sia avvia verso un ballottaggio surreale, tra un candidato verde e uno ultranazionalista dai tratti smaccatamente xenofobi. Se qualcuno vede ancora il modello del Partito della Nazione come argine ai populismi di destra e di sinistra, dovrebbe guardare all’Austria come il banco di prova di un clamoroso e allarmante fallimento.

Il bipolarismo, verso il quale lungo decenni abbiamo conformato i sistemi elettorali e istituzionali europei, fonda la sua solidità sull’esistenza di due alternative moderate. Se l’alternativa è tra un fronte moderato e un variegato fronte “antagonista”, i sistemi maggioritari rischiano di consegnare proprio a loro, agli antagonisti - winner takes all - le chiavi dell’intera baracca. Sta succedendo in Austria per il Presidente della Repubblica, è successo in Grecia con il successo di Tsipras, potrebbe succedere ovunque, a cominciare dall’Italia, proprio grazie a una legge elettorale che consegna la maggioranza al vincitore del primo turno o del ballottaggio.

La stessa dinamica, pur con differenze che variano da paese a paese, è riconoscibile nella storia politica recente di molti paesi europei: la crisi favorisce la crescita di partiti e movimenti antisistema, i partiti della destra e della sinistra moderata uniscono le forze per contrastarne l’urto, alla fine nessuno dei due partiti moderati è più in grado di governare da solo e la coalizione viene progressivamente percepita come un unico grande partito bi-colore, mentre la linea di faglia lungo la quale si polarizza il consenso si sposta dall’interno della coalizione al di fuori di essa.

Paradossalmente, nell’Italia del dopoguerra, con un sistema politico bloccato dalla mancanza di alternative “istituzionali” alla Democrazia Cristiana, è stato proprio il sistema proporzionale a favorire, sia pure con i costi che conosciamo, l’inclusione progressiva della sinistra di ispirazione sovietica nell’area moderata, sterilizzando il rischio di uno spostamento dell’intero asse di governo, dall’oggi al domani, al di fuori del perimetro dell’Europa occidentale tracciato a Yalta. E’ un’opzione non prevista invece da un sistema a premio di maggioranza.

Anzi, in una situazione di stress economico e sociale come quello che sta attraversando molti paesi europei, e più in generale l’intera impalcatura europea, sono i partiti moderati ad essere incentivati a mutuare il linguaggio dei populisti per cercare di arginarne la crescita: o per imitazione - è stato il premier Faymann, non Strache né Hofer, ad avviare la costruzione della barriera anti-migranti al Brennero -, o per contrasto, evocando il voto utile contro i rischi per la tenuta democratica del sistema. In un caso o nell’altro, avviando un crescendo di tensione nel dibattito politico di cui possono beneficiare solo le alternative populiste allo status quo.

La Presidenza della Repubblica austriaca sarà alla fine contesa da un esponente della nuova destra - "nuova" poiché acquisisce dagli eventi contemporanei i suoi argomenti e il suo consenso, e da un leader di un ambientalismo un po’ retrò, che per l’occasione ha rappresentato una sponda per gli elettori socialdemocratici in fuga dal loro partito. L'esodo verso le estreme dell’elettorato austriaco intrappolato nella Große Koalition si compirà al ballottaggio con gli elettori residui di ÖVP e SPÖ: l’esclusione di entrambi i partiti di governo dal ballottaggio potrebbe riproporre un bipolarismo destra-sinistra intrinsecamente più sano di quello tra status quo e populismi. Forse è questa la prima lezione da trarre dal voto austriaco di ieri. 

@giordanomasini