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È delle ultime settimane la notizia che lo Stato della California ha stabilito un aumento del salario minimo da 10 a 15 dollari, un obiettivo che si intende raggiungere entro il 2022. Un provvedimento simile è inoltre allo studio ad Albany per lo Stato di New York, con un aumento in questo caso da 9 a 15 dollari. Il governatore Andrew Cuomo ha rivendicato la validità dell’iniziativa sostenendo che “l’aumento del salario minimo fornirà nuove opportunità e ripristinerà la giustizia economica per milioni di newyorchesi. La nostra proposta solleverà le famiglie dalla povertà e creerà un’economia più forte per tutti”.

Che il minimum wage sia una soluzione idonea per attenuare il problema della povertà è però un’ipotesi priva di riscontro. La teoria economica che predice gli effetti negativi del salario minimo è ben consolidata, a dispetto del noto tentativo di D. Card e A.B. Krueger di metterla in questione (per una critica si legga qui). Per quali motivi si ritiene si tratti di una cattiva politica, destinata a danneggiare coloro che intende soccorrere?

Premessa del ragionamento è che il lavoro è un bene che può essere scambiato. L’idea che il lavoro sia una “merce” crea non pochi mal di pancia in alcuni intellettuali – come ad esempio Luciano Gallino – secondo i quali considerarlo tale significa ignorarne il valore più autentico, che è anzitutto “umano” ed “esistenziale”. Queste prese di posizione sembrano assumere che i decisori politici possano stabilire arbitrariamente se il lavoro costituisca un bene oppure no, ma questo è un errore. Nel momento stesso in cui il lavoro è soggetto a retribuzione, esso diventa una risorsa, vincolata come tale a una condizione di scarsità. Chiedere che il lavoro non sia una merce equivale a chiedere che esso non venga retribuito.

Se il lavoro è una merce, alzarne o abbassarne il prezzo avrà delle conseguenze. La conseguenza più immediata, nel primo caso, sarà che le imprese faranno più fatica ad assumere. In un regime di contrattazione individuale il salario di un lavoratore dipende dalla produttività attesa. Di contro, l’introduzione del salario minimo costringerebbe i datori di lavoro a pagare alcuni lavoratori più di quanto sarebbero disposti a fare sulla base del loro contributo alla produttività. Per evitare che quest’aumento di spesa abbia un impatto negativo sul profitto, saranno allora indotti a tagliare altri costi: un’azienda potrebbe ad esempio licenziare altri dipendenti, smettere di assumere, ridurre il salario di altri lavoratori, tagliare sulla sicurezza o su altre forme di benefit (queste ultime, peraltro, vanno considerate anch’esse come parti del salario). In casi estremi potrebbe persino chiudere bottega.

Si dirà però che il salario minimo ha un effetto positivo sull’economia in quanto consente a chi ne beneficia di acquistare più beni. Ma quando l’aumento dei salari non deriva da un aumento della produttività bensì da redistribuzione della ricchezza, nemmeno i consumi potranno aumentare. Semplicemente, si verificherà una redistribuzione degli stessi consumi: a parità di ricchezza totale, se c’è qualcuno che spende di più ci sarà anche qualcuno che spende di meno.

Si obietterà che, pur in assenza di guadagno economico netto, lo spostamento di ricchezza dal datore di lavoro al lavoratore sia comunque da preferire in quanto risponde a un’esigenza di equità e giustizia sociale. Ma al di là delle buone intenzioni, si può facilmente mostrare come il salario minimo finirebbe per penalizzare gli stessi lavoratori. Alla fine risulterà che il salario minimo nemmeno si limita a redistribuire la ricchezza esistente, ma comporta una vera e propria riduzione della ricchezza disponibile.

Quanto più si alza il minimo salariale, tanto peggiori saranno le conseguenze in termini di posti di lavoro persi. Il ragionamento è indirettamente confermato da coloro che sono favorevoli al salario minimo. Se quest’ultimo non ha effetti negativi sull’occupazione, perché non innalzare il minimo a 50 o a 100 dollari? Ma se tali numeri comportano una maggiore difficoltà ad assumere, lo stesso deve valere per qualsiasi salario al di sopra del livello di mercato.

Con l’aumento del salario, inoltre, aumenta anche il costo marginale del lavoro. Conseguenze negative sull’occupazione saranno dunque l’effetto di qualsiasi innalzamento del salario al di sopra del livello di mercato. Semplicemente, tali conseguenze saranno maggiori o minori a seconda dell’entità dell’aumento. Non a caso, persino economisti favorevoli, in linea di principio, al minimo salariale hanno avvertito dei rischi di un aumento da 10 a 15 dollari.

Quali altri effetti negativi potrebbero esserci? Come già detto, se il datore di lavoro è costretto a sborsare più di quanto la produzione gli consenta dovrà in qualche modo compensare quel costo. Un’altra possibilità è che si alzi il prezzo dei beni. In tal caso i lavoratori si troveranno a guadagnare di più da un lato, ma a spendere di più (o consumare di meno) dall’altro.

Ulteriore effetto sarà il danno arrecato ai lavoratori low-skilled. Giovani senza esperienza in cerca di un primo impiego, immigrati, lavoratori di valore inferiore al minimo salariale: per costoro trovare un lavoro sarà molto più difficile. A questi individui sarà di fatto tolta la possibilità di offrire il proprio impegno meno qualificato per un lavoro pagato meno – salvo naturalmente ricorrere al lavoro in nero. Una legge sul salario minimo penalizzerebbe drammaticamente queste persone, privandole di fatto della libertà di competere, cioè di farsi preferire agli altri in virtù dell’unico vantaggio che possono offrire, cioè un costo inferiore.

Che l’innalzamento del salario minimo comporti le conseguenze menzionate non risponde soltanto a teoria ma è stato sperimentato in occasioni recenti, ad esempio a Porto Rico e a Seattle, nel secondo caso con un salario pari a quello che si vuole introdurre in California e nello Stato di New York.

Perché allora insistere su una politica così deleteria? Non v’è dubbio che almeno ad alcuni lavoratori l’innalzamento salariale arrecherà dei benefici. I benefici di alcuni verranno però pagati da altri, con il rischio che si crei una barriera tra chi ha di più e chi ha di meno. Le persone che beneficerebbero di un salario minimo avrebbero un volto, un nome e un cognome, mentre ben più difficile sarebbe identificare coloro che ne scontano le conseguenze. Come ci ha insegnato Frédéric Bastiat, gli effetti visibili sono per definizione più facili da notare degli effetti non visibili.

Ma, oltre ad avere un volto, i beneficiari del salario minimo hanno anche un voto. Le politiche sul minimo salariale creano la percezione diffusa ma ingannevole che un governo stia realizzando qualcosa a favore dei meno abbienti. A questi ultimi nessuno, di certo non la scuola, si prenderà la briga di spiegare le conseguenze negative dell’introduzione del salario minimo. Chiamati a esprimere una preferenza, gli elettori tenderanno a preferire chi sembri loro offrire di più. E questo è per i politici un incentivo fortissimo a schierarsi a favore del minimo salariale.

Inoltre, sempre perché è più facile identificare i beneficiari del salario minimo rispetto a coloro che ne scontano le conseguenze – alcuni dei quali non sono nemmeno nati – i sindacati avranno tutto l’interesse a proteggere i propri iscritti attraverso la contrattazione di un minimo salariale. Considerazione, questa, che dagli Stati Uniti ci induce a spostare lo sguardo, sia pur fugacemente, sul nostro paese.

I nostri sindacati, non contenti dei contratti nazionali di categoria – che penalizzano il meno produttivo sud, per le ragioni sopra esposte – sono anch’essi all’inseguimento di un minimo salariale nazionale. Nell’eterna illusione che gli stipendi possano aumentare senza che aumenti la produttività, e che si possa rimuovere la povertà con un intervento legislativo, piuttosto che con l’impegno degli individui.