draghi

'Voce che grida nel deserto'. Mario Draghi, suo malgrado, è un profeta inascoltato. L’ennesimo grido d’allarme riguarda la vulnerabilità dell’Eurozona di fronte a una possibile turbolenza economica proveniente – guarda caso- dall’altra sponda dell’Atlantico. Autorevoli player della sfera economica pubblica e privata americana, del resto, lo hanno detto a più riprese. Da Janet Yellen a Donald Trump, vari aruspici hanno espresso funesti presagi sull’inversione del ciclo economico.

In America, tuttavia, nessuno sembra preoccuparsi più di tanto. Il motivo? È perfettamente normale che il ciclo economico viva di alti e bassi. La crescita costante al 2% è un miraggio dal punto di vista empirico. Vista da Oltreoceano, la Grande Crisi del 2007-2008 si può considerare come un’influenza particolarmente virulenta, ma che non ha minato il sistema alle fondamenta. C’è la consapevolezza che la ricchezza persa durante la crisi è stata pienamente recuperata.

In Europa, al contrario, la Grande Crisi - che ha avuto origine negli Stati Uniti, come ben sappiamo - è servita a scoperchiare il vaso di Pandora dei problemi strutturali che affliggono l’Unione monetaria. L’Europa del 2007 è come un malato di AIDS inconsapevole di esserlo. Quasi 10 anni dopo, i vari agenti patogeni che hanno attaccato le sue membra sono stati miracolosamente debellati, lasciando tuttavia un corpo allo stremo delle forze. Peggio ancora, nessun medico ha tentato una cura appropriata all’immunodeficienza europea. Il risultato? Al prossimo starnuto, rischiamo di perdere il paziente. Per sempre.

L’unico a provarci è Mario Draghi. Sia chiaro: salvare l’Eurozona dal disastro neppure gli compete. La missione della Banca Centrale Europea consiste principalmente nel mantenere la stabilità dei prezzi, vigilare sull’Eurosistema delle Banche Centrali dei 19 Paesi membri e preservare l’integrità e la stabilità dell’Euro.

Per soddisfare quest’ultima, se Draghi si limitasse a svolgere i suoi compiti in modo diligente, basterebbe contenere le fluttuazioni dell’Euro sui mercati finanziari con operazioni standard di politica monetaria. In altre parole, basterebbe attenersi alle regole convenzionali. Ma, pur di salvare politicamente l’Eurozona dalle lacerazioni che la dividono, Draghi va oltre, portando i tassi di rifinanziamento a zero (e, se necessario, sottozero). E, quando non basta, a suon di quantitative easing, inondando di liquidità i mercati. In altri termini, la BCE sta pagando gli istituti di credito per prendere denaro in prestito. Siamo certi che la vostra filiale di fiducia non vi ha riservato lo stesso trattamento quando le avete chiesto un mutuo.

Il problema è esattamente questo: la catena di trasmissione di politica monetaria dalla banca centrale a quelle commerciali (si legga: all’economia reale) è gravemente compromessa in Europa da quasi un decennio a questa parte. Immaginate di pedalare sulla vostra bicicletta. A un certo punto, salta la catena. Che fare? Elementare, Watson: rimettere la catena a posto e aggiungere un po’ d’olio, in modo che scorra meglio. Draghi può solo mettere olio alla catena, ma essa non può essere sistemata se i binari su cui scorre sono rotti o, addirittura, non ci sono affatto. Nei sistemi economici moderni, politica economica e politica monetaria sono prese in cura da istituzioni differenti: il governo e la banca centrale, che è indipendente rispetto al governo.

Sia la BCE che la Fed hanno reagito con forza alla crisi. La politica monetaria ha fatto il suo lavoro anche oltre le regole convenzionali, usando invece generose dosi di discrezionalità, per via delle circostanze straordinarie, specie in Europa. Come mai allora gli USA sono ripartiti sfrecciando, mentre l’Eurozona resta a piedi?

La ragione è semplice. Il governo degli Stati Uniti ha messo in campo stimoli all’economia per 13 trilioni di dollari (avete letto bene: trilioni). L’Europa? Quasi un decennio dopo l’incipit della crisi, discute ancora su come implementare il Piano Juncker, approvato faticosamente dopo sforzi e negoziati estenuanti tra i Paesi membri. Un ulteriore dettaglio, non certo irrilevante: il Piano Juncker punta in larga misura su investimenti privati; quelli USA sono tutti soldi pubblici. E, come ogni economista politico ben sa, l’intervento del governo può essere efficace specialmente dove il mercato fallisce. Ma è ben difficile chiedere a un paziente in coma di resuscitarsi da solo.

Chiariamo le responsabilità: la tanto vituperata Unione Europea, con i suoi pur evidenti limiti, c’entra poco. In termini di mezzi, l’UE è un peso piuma: essa dispone dell’1,28% delle risorse della somma dei suoi Stati Membri che, al contrario, sono dei pesi massimi: ciascun governo europeo, in media, incide in media per il 49% sull’economia nazionale.

Intuite dove sta il problema? La struttura macroeconomica dell’Eurozona è un potpourri con esigenze di politica fiscale e monetaria profondamente diverse. Quel che è peggio, le 19 leadership sono in grado di coordinarsi in modo insufficiente per far fronte alla rapidità e alla complessità delle sfide politico-economiche moderne. Il dibattito di policy europeo si riduce troppo spesso alla somma degli egoismi nazionali, il cui unico obiettivo diventa portare nella propria parrocchia la preda più grande.

L’appello di Draghi alle riforme strutturali e ad una politica fiscale comune rischia di costituire l’ultima chiamata prima della prossima crisi. L’enorme liquidità immessa sui mercati da BCE e Fed per combattere la recessione e scongiurare la deflazione è rimasta nel comparto finanziario, e solo poche gocce sono filtrate a valle. Rischiamo grosso. Ma se mettiamo da parte gli interessi campanilistici per salvare noi stessi e l’Europa, siamo ancora in tempo per riparare la bicicletta e pedalare più forte che mai.