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Ogni volta che in qualche parte nel mondo c'è un conflitto, una folta schiera di politici e di opinionisti si affanna a sostenere che tocca agli Stati Uniti risolverlo. Che si tratti di inviare armi all'Ucraina o invocare l'invio di truppe in Iraq (o in Siria) l'assunto è sempre lo stesso: ogni problema è un problema dell'America; e il modo migliore per risolvere i problemi dell'America è uno solo: usare la forza. Anche a proposito dell'ISIS, ovviamente, sono in parecchi a reclamare a gran voce l'intervento militare americano; manco a dirlo, anche quanti hanno condotto gli Stati Uniti in Iraq un decennio fa, una decisione che, a ben guardare, ha contribuito ad innescare gli avvenimenti che oggi hanno luogo in quel paese.

Le cose, però, sono cambiate. Nella recente intervista di Jeffrey Goldberg sull'Atlantic, il presidente Barack Obama sostiene che quella che molti opinionisti considerano una delle pagine peggiori della sua presidenza - la decisione di non bombardare la Siria nell'estate del 2013 dopo che Bashar al-Assad aveva violato la «red line» sull'uso delle armi chimiche - sia stato invece uno dei suoi momenti migliori: la presa di distanza più risoluta da quello che Obama ha definito il «Washington playbook». Nel football americano, il playbook è il libretto con le strategie e gli schemi di gioco; per capirci, una sorta di manuale. «C'è un manuale a Washington che si suppone che i presidenti debbano seguire - spiega Obama -, ed il manuale prescrive le risposte alle diverse situazioni, e queste risposte tendono ad essere risposte militari. Dove l'America è direttamente minacciata, il manuale funziona. Ma il manuale può anche rivelarsi una trappola e condurre a pessime decisioni». Goldberg descrive quel giorno, nell'opinione di Obama, come «il giorno della liberazione, il giorno in cui ha sconfitto non solo l'establishment della politica estera ed il loro manuale fatto di missili cruise, ma anche le richieste degli alleati (sconfortanti e costosi da mantenere) dell'America nel Medio Oriente».

Naturalmente, l'intervista ha suscitato una valanga di critiche che prendono di mira quella combinazione di avversione al rischio e di parole ispirate che molti considerano una caratteristica (negativa) della presidenza Obama. Resta però il fatto che da più parti (anche sorvolando sulle uscite di Trump o sulle posizioni di Sanders), comincia a farsi strada l'idea che la grande strategia che gli Stati Uniti hanno perseguito dal crollo della potenza sovietica «non è necessaria, è controproducente, costosa e inefficiente». Lo spiega in un libro Barry Posen, professore di scienze politiche al MIT. Posen auspica un diverso approccio; e il titolo del libro, «Restraint», esprime in modo stringato la sua esortazione. Gli Stati Uniti, egli sostiene, devono smetterla di cercare di fare sempre di più. Devono, invece, fare meno. Anche perché «gli sforzi per difendere tutto finiscono per non difendere nulla». La cosa, ovviamente, ci riguarda da vicino.

Barry Posen introduce due concetti di buon senso. Primo: gli ostinati tentativi di impiegare, dalla fine della guerra fredda, una grande strategia di «egemonia liberale» sono falliti, principalmente a causa della «forza inesauribile del nazionalismo e della propensione della gente a resistere ai soprusi degli estranei». Ad eccezione della missione finalizzata ad intrappolare e a distruggere al-Qaeda in Afghanistan, le spropositate ambizioni che hanno spronato la politica degli Stati Uniti dopo l'11 settembre, pretendevano di mettere in piedi società liberali all’interno di contesti illiberali e arretrati. L'amministrazione Bush ha scommesso tutto sul fatto che, dopo il successo illusorio a Kabul, le trasformazioni sarebbero venute come conseguenza, naturalmente; e, tristemente, gli Stati Uniti hanno speso sangue e denaro in grande quantità inseguendo un sogno improbabile. Senza peraltro contribuire a salvaguardare quello a cui tenevano di più: il benessere e i valori americani, il loro potere e la loro la sicurezza.

Secondo: gli Stati Uniti devono abbracciare la «grande strategia» che si possono davvero permettere. C’è chi dice che gli Stati Uniti possono anche non badare agli alti costi delle traversie in politica estera perché, in fondo, l'America se lo può permettere. A differenza di altre grandi nazioni, il paese è molto ricco, resiliente, e può attendere che si presenti la prossima opportunità senza preoccuparsi troppo del nemico della porta accanto. Ma ora, scrive Posen, siamo a un punto critico: la grande strategia della «egemonia liberale» non è più alla portata degli USA.

Anche perché, sostiene Posen, gli alleati degli Stati Uniti sono di due generi. Ci sono i «cheap riders» - per capirci, gli scrocconi di cui ha parlato Obama, quelli che salgono sull'autobus senza comprare il biglietto o che beneficiano dei beni comuni con un contributo e uno sforzo minimi - e i «reckless drivers», i guidatori spericolati e incoscienti. Tra i primi ci sono i paesi che beneficiano dell'ampio ombrello di sicurezza degli Stati Uniti (i membri della Nato ed il Giappone, per esempio) e che hanno in comune con gli americani le stesse preoccupazioni circa la sicurezza, ma che malauguratamente, spendono per la difesa risorse molto al di sotto delle loro necessità, in genere attorno al 1% del Pil (la spesa per la difesa degli Stati Uniti è all'incirca del 4,8%).

Anziché incrementare le risorse, gli scrocconi non di rado mettono in dubbio la credibilità americana. Secondo il direttore del Security Studies Program al MIT, è una forma di scaricabarile, usata per rimproverare agli Stati Uniti di non essere affidabili. Il problema, sostiene Posen, non è che gli USA manchino di credibilità, ma che ne hanno troppa. I guidatori spericolati perseguono invece politiche che danneggiano gli interessi degli Stati Uniti, e spesso loro stessi. Come gli scrocconi, scommettono sul fatto che gli Stati Uniti manterranno la promessa di fornire una sorta di garanzia militare di ultima istanza. Secondo Posen, il modello è rappresentato da Israele. Egli ritiene che l’occupazione brutale di Israele e la ripresa della costruzione di nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania, una strategia di esproprio territoriale e di «apartheid», rendano molto difficile per gli Stati Uniti perseguire i propri, più ampi, interessi, nella regione, incluso il contenimento dell'Iran e la lotta ad al-Qaeda. Inoltre, Posen ritiene che l'acquiescenza degli Stati Uniti nei confronti delle politiche di Israele, spesso per ragioni di politica interna, lasci l'impressione che lo sforzo americano di diffondere la democrazia nel Medio oriente suoni ipocrita. Secondo il professore del MIT, anche molti dei «partner» degli americani nel nation building, in particolare i governi di Maliki e di Karzai, sono più interessati a mettere al sicuro il loro potere e le loro prerogative che a vincere la battaglia per i cuori e per le menti. Gli amici, quelli veri, non permettono ai loro compagni di guidare ubriachi. Gli Stati Uniti lo fanno, offrendo loro un sostegno incondizionato quando invece dovrebbero portare via loro le chiavi dell'auto.

Che cosa dovrebbero fare, allora, gli americani? Barry Posen raccomanda agli Stati Uniti di investire in quello che sanno fare meglio, e cioè nel controllo dei beni comuni globali attraverso la forza aerea e marittima, riducendo le forze militari sul terreno; e immagina una riduzione nella spesa per la difesa fino al 2.5% del Pil, la maggior parte della quale ottenuta riducendo l'esercito e l’ampia presenza americana oltremare.

Ovviamente, si posso fare diversi rilievi. Si può contestare che quel che propone Posen è una vera e propria strategia di disimpegno. Il che ha i suoi pericoli. Si può obiettare che, in realtà, un’America più moderata - «sotto freno», per così dire - sarebbe un'America legata più strettamente (e non meno) alla comunità internazionale attraverso l’esercizio della leadership delle istituzioni e delle alleanze globali. Tutto vero. Ma il professore del MIT non è un isolazionista. Egli incoraggia gli Stati Uniti a perfezionare la loro capacità, in quanto unica vera potenza globale, di muovere velocemente le risorse di cui hanno bisogno nel caso fosse necessario contenere eventuali aspiranti egemoni regionali. Inoltre, sostiene che una politica di graduale ma unilaterale trasferimento del «fardello» militare, sia l'unico modo per convincere gli alleati (a cominciare dagli europei) ad aumentare la spesa per la sicurezza. Gli Stati Uniti hanno bisogno di partner capaci, ma finora si sono limitati soltanto a qualche rimprovero che non ha prodotto risultati. Ora bisogna cambiare, proclama Posen.

A ben guardare, per l'Europa è l'occasione per accelerare il decollo della difesa comune. Specie se si considera che oggi la nuova sfida della UE è quella di impostare una nuova politica di sicurezza e cooperazione diretta verso Sud che, pur nella diversità degli strumenti, punti ad essere almeno altrettanto efficace di quella condotta con lo strumento dell'allargamento verso Est. Sempre che l'Unione europea riesca a non dividersi. Sempre che gli europei riescano a guardare in faccia la realtà. Savvy?, direbbe il capitano Jack Sparrow.