lavoro giusta

È proseguita incessante, anche nelle ultime settimane, la diatriba sull'andamento della disoccupazione e sulle ipotesi di una presunta ripresa della crescita nel nostro paese. Si contrappongono, come al solito, il governo e i cosiddetti 'gufi'. Il primo continua a ripetere che l'Italia finalmente riparte, e che grazie alla (presunta) ripresa anche la disoccupazione sta scendendo. I secondi, invece, non proprio a torto, continuano a mostrarsi ostinatamente e orgogliosamente scettici al riguardo.

A prima vista non è semplice districare la matassa, fatta di dati eterogenei (ISTAT, ministero, INPS, etc.), dichiarazioni e interpretazioni teorico-empiriche contrastanti. Ho quindi deciso di proporre una mia interpretazione. Lascio a voi, dopo, il divertimento di stabilire se e in che misura vi pare valida, e se e in che misura appartengo al fronte dei cosiddetti 'gufi'. A dire il vero, su quest'ultimo aspetto, chi mi legge da tempo dovrebbe già avere la risposta.

Voglio scegliere una chiave interpretativa un po' fuori dal comune di questi tempi, forse un tantino demodé, ma che si presta molto bene per cercare di capire. È ispirata a una relazione nota come “legge di Okun. Ogni studente di macroeconomia che si rispetti la conosce (per lo meno quelli della mia generazione) e si è lasciato sedurre da lei almeno una volta.

La relazione stabilisce un legame molto semplice tra il tasso di crescita dell'economia e il tasso di disoccupazione: per ogni punto percentuale di crescita in più rispetto al tasso di crescita potenziale, il tasso di disoccupazione si riduce in misura pari a una frazione di quel punto percentuale. Il valore della frazione esprime, in un certo senso, la reattività del tasso di disoccupazione alla crescita economica.

Quanto è reattivo il tasso di disoccupazione dipende da paese a paese. La reattività è legata soprattutto al grado di flessibilità del mercato del lavoro. In Spagna, per esempio, sarà tendenzialmente più elevata. E la disoccupazione scende rapidamente quando l'economia riprende a crescere. In paesi come l'Italia o la Francia lo fa più lentamente. In Italia, alcune stime collocano la reattività tra 0,3 e 0,4. In sintesi, se l'economia cresce a un tasso superiore di un punto rispetto a quello potenziale, allora il nostro tasso di disoccupazione scende di 0,3-0,4 punti percentuali. Semplice e seducente, come dicevo.

Nessuna relazione empirica in economia dovrebbe essere elevata al rango di legge. Nessuna è esente da critiche, e anche questa non fa eccezione. Forse non avrei dovuto nemmeno lasciarmi sedurre. Ma, insomma, state leggendo un pezzo nazional-popolare e senza troppe pretese. Lasciatemela prendere per buona e ragionare un po’ su occupazione e disoccupazione in Italia.

Bene, ciò premesso, la riduzione della nostra disoccupazione nel 2015 (0,8 punti percentuali in meno rispetto al 2014), non può essere merito della “ripresa” dell'economia nel 2015. Questo è evidente. Il tasso di crescita è stato un anemico 0,6 per cento. La differenza con il potenziale è positiva, certo. Ma di appena 0,4 punti. La crescita potrà avere il merito di avere ridotto la disoccupazione al massimo di 0,2 punti. Resta oltre mezzo punto da spiegare. Bisogna chiamare in causa altri fattori.

Il messaggio del governo è chiaro: si tratta degli effetti delle riforme e in particolare del Jobs Act. Ma è un messaggio che lascia il tempo che trova: negli ultimi tempi, molti esperti della materia hanno mostrato che il Jobs Act non c'entra niente con la riduzione della disoccupazione. E anche il mio rozzo ragionamento logico empirico suggerisce la medesima conclusione.

Nel senso che il provvedimento del governo potrà, semmai (ammesso sempre che funzioni nel più lungo periodo), fare leva sulla reattività del tasso di disoccupazione alla crescita economica. Ma in ogni caso, quale che sia la reattività, se non ci sarà crescita sufficiente la disoccupazione non si ridurrà, né oggi né domani. E poi non dimentichiamo che, se la reattività è più alta, quando in futuro si crescerà meno del potenziale, la disoccupazione potrà essere più rapida anche a risalire. Basta guardare la Spagna degli ultimi anni. Da questo punto di vista il Jobs Act è e resta un'arma a doppio taglio.

La spiegazione è un'altra ed è più semplice. A sostenere l'occupazione è stata innanzitutto la generosissima decontribuzione totale per i nuovi assunti, costata parecchi miliardi di euro alle casse pubbliche. E, poi, un ruolo non secondario lo hanno avuto gli effetti della riforma pensionistica Fornero. L'età di uscita dal lavoro si è spostata in avanti. I lavoratori della classe over 50 sono stati trattenuti in servizio. E quelli che ne erano usciti prima della riforma sono stati indotti a rientrarvi, non essendo più conveniente per loro limitarsi ad attendere, in qualità di “esodati” o di inattivi, il raggiungimento dell'età per il pensionamento di vecchiaia.

Per questo, dunque, mentre la disoccupazione giovanile non accenna a ridursi, aumenta l'occupazione nella classe di età over 50. Il tasso di disoccupazione complessivo si è ridotto di quel poco per l'effetto di fattori artificiali. La crescita c'entra poco. Ed è chiaramente in atto una ricomposizione della struttura per età degli occupati. Cosa, quest'ultima, che suggerisce due considerazioni, a mo' di early warning.

La prima è che si sta materializzando una sorta di spiazzamento. Sembra proprio che la permanenza dei più anziani al lavoro stia di fatto tagliando fuori i più giovani. E allora non escludo che, sulla scorta di questa evidenza, qualcuno nei prossimi mesi tornerà a chiedere la revisione della legge Fornero e l'allentamento dei requisiti per il pensionamento. Anzi, ad essere precisi qualcuno lo ha già fatto: il presidente dell'INPS Tito Boeri. Insomma, presto potrebbe riaffacciarsi il miraggio della mitica staffetta generazionale: “mandare prima in pensione gli anziani per fare posto ai giovani”. Un grande cavallo di battaglia per i populismi di tutte le sponde. Ma sarebbe l'ennesimo autoinganno. Il problema non è la legge Fornero, bensì, come abbiamo visto, la crescita che manca.

La seconda considerazione, invece, riguarda i possibili effetti negativi dell'invecchiamento tendenziale degli occupati sulla produttività del lavoro, che è già un punto dolente della nostra economia. La produttività di un lavoratore non è certo indipendente dall'età. In molti studi si legge che un individuo dà il meglio di sé in una fase della propria vita collocata tra i 40 e i 50 anni di età. Questo, ovviamente, anche in funzione del grado di istruzione. Per la forza lavoro meno scolarizzata l'età di “massima resa” tende ad abbassarsi. E i numeri dell'Italia non sono favorevoli in questo senso. Da noi solo circa il 15 per cento della forza lavoro ha una istruzione terziaria, a fronte del 25 per cento nella media UE e del 27 per cento nella media OECD.

A parte queste considerazioni, tornando alla relazione tra disoccupazione e crescita, se le cose stanno così non c'è molto spazio per i trionfalismi sul mercato del lavoro in Italia. Perché le prospettive di crescita non sono propriamente allettanti e non c'è da aspettarsi che le politiche del governo producano grandi cambiamenti. Forse non siamo alla fine di una fase di recessione. Probabilmente siamo dentro una depressione economica, e a breve non si vedono grandi mutamenti di scenario.