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La rivendicazione del ruolo pubblico delle fedi religiose nella vita sociale, e quindi anche nel dibattito politico, è stato un tema centrale della stagione ruiniana e ha influenzato in modo determinante, per molti anni, le scelte legislative e di governo. L'approvazione della legge 40 sulla (contro la) fecondazione medicalmente assistita e lo stop alla legge sui Dico furono il suggello di quella che apparve a molti una "riconquista" da parte della Chiesa dello spazio politico perduto dopo le sconfitte nei referendum sul divorzio e sull'aborto.

In realtà, la dottrina dei "valori non negoziabili" non riconquistò l'Italia ma, più modestamente, solo una larga parte del sistema politico - soprattutto ma non esclusivamente a destra - interessato a guadagnare il favore dell'episcopato italiano, tornato elettoralmente contendibile dopo la fine della DC e dell' unità politica dei cattolici.

Il referendum sulla legge 40, vanificato dall'astensione e dal mancato raggiungimento del quorum, da questo punto di vista, tutto rappresentò fuorché una legittimazione democratica della stretta valoriale sui diritti civili. Fu semplicemente una riuscita operazione di collateralismo politico-religioso, che sommando l'astensionismo attivo a quello passivo (e di suo naturalmente compreso tra un terzo e la metà dell'elettorato in tutte le consultazioni referendarie) riuscì a impedire che dalle urne uscisse un valido responso sulla proposta abrogativa della legge 40.

Quando però parliamo di "ruolo pubblico" della religione tendiamo a spesso confondere due concetti che sono non solo distinti, ma radicalmente contrari.

Da una parte c'è il (sacrosanto) diritto di tutti - singoli cittadini e organizzazioni sociali - di partecipare alla vita politica e di intervenire liberamente sui temi dell'agenda parlamentare. È questo un diritto di parola incomprimibile, che lo statuto religioso dell'interlocutore o del discorso non grava di maggiori obblighi di misura o di prudenza, né investe di una superiore dignità e legittimità morale.

Sono sempre stato contrario a un'impostazione, che altri definirebbe "laicista", secondo la quale il regime concordatario (in sé discutibile e infatti sconosciuto nella patria della libertà religiosa, gli Stati Uniti di America) priverebbe la Chiesa e i suoi rappresentanti di un pieno diritto di parola. Da questo punto di vista, l'intervento del Presidente della Cei, come quello di qualunque altro leader laico e religioso, è un contributo oggettivamente importante al dibattito pubblico, che non si può denunciare come un abuso o un eccesso. Al contrario è una prova della piena e positiva laicizzazione dello Stato e della politica, visto che il capo dei vescovi e il capo di un'organizzazione gay possono partecipare alla stessa discussione sulle unioni civili, con la stessa dignità e lo stesso diritto.

Il rischio da evitare, quindi, non è che la Chiesa o qualunque altra istituzione religiosa esprima il proprio punto di vista, ma che il Parlamento pensi che sulle questioni eticamente sensibili la parola della Chiesa debba, in virtù della sua indubbia rappresentatività, "pesare" più di quella della generalità dei cittadini e che il modo di intendere i diritti civili debba in qualche modo riflettere o rispettare le sensibilità religiose, in ragione della loro preminenza morale. Il ruolo pubblico della religione, insomma, non può tradursi nell'esigenza di una legittimazione religiosa della legislazione civile.

Questo approccio culturalmente subalterno, che appalta ai "professionisti della morale" la definizione dei limiti del legislatore sui temi bioetici, è profondamente contrario al principio di laicità, che impone di riconoscere ai cittadini il massimo di libertà compatibile con quella di tutti gli altri e rispettosa dei diritti di tutti, ma non di cercare, in nome di valori condivisi, un (impossibile) minimo comune denominatore sui temi dell’etica sessuale, procreativa e familiare.

Sull'aborto, sulla procreazione assistita, sulle unioni gay, è perfettamente legittimo, anzi è inevitabile, che in una società pluralistica si abbiano idee diverse e non componibili. A non essere accettabile è che solo alcuni possano perseguire i propri valori e molti siano obbligati a obbedire a quelli altrui. Non tocca al legislatore dare ragione agli uni o agli altri, ma gli corre l'obbligo di non fare torto a nessuno.

@bendellavedova