Partendo da un articolo di Benedetto Della Vedova, apriamo una riflessione a più voci sulla paradossale impoliticità della proposta politica liberale in Italia. Critiche, autocritiche, analisi e impegni di autori diversi, più o meno interessati e partecipi alle sorti della "causa".

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Il “vuoto liberale” in Italia è un problema ma anche un’opportunità, scrive Benedetto Della Vedova. È vero, ha risposto Simona Bonfante, ma è un’opportunità che non si riuscirà mai a cogliere fintantoché i liberali persevereranno nel loro elitarismo e nella loro carenza di creatività. Il dibattito che Strade ha aperto è stimolante e interessante e, si parva licet, vorrei provare a dire la mia sul perché la galassia dei liberali italiani (tanto eterogenea e vitale nel proprio microcosmo, quanto minoritaria e afona nel macrocosmo) non riesca a darsi spessore, politico e elettorale.

Il grosso problema dei liberali – che pesa più, a mio giudizio, del non essere “creativi” – è di non saper essere “radicali”. Ed è un problema antico. Si pensi alle sorti elettorali del Partito Liberale Italiano: negli anni 80, in Italia, non si ebbe traccia di quella rinascita – prima di tutto elettorale – delle istanze e delle forze liberali che stava avvenendo in un po’ tutto il mondo occidentale. E questo perché i liberali italiani di allora avevano ormai rinunciato a un certo grado di radicalismo e avevano appiattito le proprie posizioni su quelle mainstream del “pentapartito”, finendo per risultare indistinguibili o quasi dal resto dei partiti di centro-sinistra (e senza che questo abbia apportato alcun vantaggio elettorale, anzi: il PLI registrò il proprio record elettorale, al contrario, nel momento in cui aveva radicalizzato le proprie posizioni liberali e liberiste). Con la fine della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda, la situazione si è solo aggravata: complice il fatto che immediate e profonde riforme erano ritenute di difficile realizzazione, quei pochi liberali organizzati hanno prestato di volta in volta il proprio consenso a politiche che richiamavano – seppur molto alla lontana – i loro obiettivi di diffusione di una maggiore libertà, ma che in realtà si sono rivelate soluzioni a troppo corto raggio. Erano, per usare una metafora semplice ma efficace, solo delle “pezze” che – come tali – sono finite per essere peggiori (o quasi) del buco che avrebbero voluto tappare. Con la conseguenza che quelle “pezze” sono state percepite, però, dall’elettorato e dal sentire comune, come proposte “liberali” e il loro fallimento è diventato il fallimento tout court del liberalismo. È anche colpa dei liberali se la maggioranza della società italiana classifica come “liberali” riforme e policy che non lo sono affatto.

Torno su uno degli esempi che Bonfante fa nel suo articolo per provare a chiarire quello che penso. Il sentire comune davvero vede nei liberali i sostenitori della «necessità di tenere i settantenni a lavoro per ragioni di sostenibilità fiscale» e tale percezione è ancora più forte dopo l’approvazione della legge Fornero, che i liberali – con grande senso di responsabilità – hanno prima promosso e poi difeso, ponendo l’accento proprio sull’urgenza di salvare i conti pubblici. Ma hanno sbagliato a farlo: perché, con tutto il rispetto per Elsa Fornero e tenuto conto della situazione contingente in cui si è trovata a operare, la sua non è stata una riforma liberale. Una riforma liberale delle pensioni è quella di José Piñera in Cile: è la liberalizzazione e privatizzazione del sistema pensionistico. È una scelta radicale, che non lascia spazio al compromesso, alle “pezze”, alle vie di mezzo.

Ora, dopo la Fornero, i liberali sono associati a quelli che vogliono i settantenni, gli ottantenni e pure – perché no! – i novantenni incatenati al proprio posto di lavoro, per sempre! Niente di più sbagliato. Perché i liberali sono (o dovrebbero essere) quelli che ai lavoratori dicono: voi siete padroni del vostro destino e del vostro futuro e delle vostre pensioni. Pertanto, risparmiate e depositate i soldi nel fondo di cui più vi fidate: sarete voi a scegliere quando andare in pensione, non il legislatore dell’ennesima riforma. E cosa c’è di più “anti-elitario” del restituire il potere di scelta sulle proprie vite ai singoli individui? Cosa c’è di più “anti-elitario” del rompere il meccanismo di redistribuzione, che non è solo di valori economici dal più povero al più ricco, ma di “potere” dall’individuo allo Stato? Ma fare discorsi del genere è radicale e di rottura: e (giustamente?) i quattro gatti liberali in politica spesso preferiscono appoggiarsi a soluzioni di piccolo cabotaggio, ben lontane dalle nostre aspirazioni alla libertà “effettiva”. Ma nel momento in cui hanno abbandonato il loro radicalismo, hanno perso anche ogni possibilità di vittoria (e, al subentrare della delusione e della disillusione, è seguita anche la mortificazione della creatività: essi non riescono più a trasmettere al mondo una visione entusiasta, ottimistica e libertaria del futuro, ripiegati come sono a fare da “cassandre” sul prossimo e inevitabile fallimento del sistema...).

Ancora una volta, può tornare utile tornare all’insegnamento dei “classici”. Friedrich Von Hayek ha sempre esortato i liberali a tenere alto il vessillo delle loro idee e dei loro valori: «Dobbiamo far sì che la costruzione di una società libera si prefiguri ancora una volta come un’avventura intellettuale, un vero e proprio atto di coraggio. Quello di cui difettiamo è una “Utopia liberale”, un programma che non rassomigli né ad una mera difesa dello status quo, né ad una sorta di socialismo temperato, ma che si manifesti invero come un radicalismo veramente liberale (…). Il libero scambio e la libertà di scelta sono ideali che ancora possono eccitare l’immaginazione di un grande numero di persone, ma la prospettiva di una mera “ragionevole libertà di scambio”, così come quella di un mero “allentamento dei controlli” non si pongono né come intellettualmente rispettabili, né tanto meno sono in grado di suscitare alcun entusiasmo». Sulla stessa linea d’onda, Murray N. Rothbard ha evidenziato «l’emozione e l’entusiasmo che un sistema logicamente coerente è in grado di ispirare. Chi, al contrario, andrebbe mai sulle barricate per una riduzione d’imposta del due per cento?».

Certo, bisogna essere consapevoli che allo stato attuale delle cose, poco e niente sembra deporre a favore di una rinascita liberale. Come ha giustamente ricordato Leopoldo Papi a un vuoto liberale corrisponde un pieno illiberale nella politica e nelle decisioni pubbliche, democraticamente legittimate dal voto degli elettori, che sembrano orientati a scegliere solo tra diversi "illiberalismi". Il sentire comune sembra viaggiare stabilmente verso altri lidi: ma è così – a mio giudizio – perché quei lidi sono sempre stati indicati dal mainstream non liberale come gli “unici accettabili” e sono diventati gli “unici possibili” nel momento in cui i liberali, rinunciando al loro radicalismo, si sono progressivamente eclissati.

Ma tutto questo non vuol dire che non si possa cambiare. Il Regno Unito che nel 1979 ha eletto Margaret Thatcher non era poi così diverso dal nostro Paese oggi: Tories e Labour erano praticamente indistinguibili per policy e proposte. E la stessa Thatcher non fu eletta con un piano di “inversione di marcia” poi così radicale: il passaggio da una nazione «siediti e aspetta» a una «alzati e fai» maturò passo dopo passo e tanto più il messaggio della Thatcher si “radicalizzava”, tanto più l’elettorato si “svegliava” dal torpore “socialista” in cui aveva vissuto fino a quegli anni e decideva di seguirla. La stessa cosa potrebbe accadere da noi: nel momento in cui i liberali hanno smesso di essere radicali le loro idee sono scomparse dal dibattito e dalla coscienza generale: ma se tornassimo a raccontarle con coerenza e radicalità, potremmo ottenere prima sorpresa, poi curiosità e infine attenzione! Del resto, come ha notato Della Vedova, è così difficile ottenere consenso sulle proposte di maggiore libertà economica (dalle liberalizzazioni alle privatizzazioni), politica (la battaglia per la “giustizia giusta”) e civile (la legalizzazione delle droghe leggere)? Finché i liberali italiani non si decideranno a provare altre vie (e torna ancora, allora, l’invito alla “creatività”), finché non si daranno leader forti e intellettualmente coerenti, allora non sapremo mai se gli italiani vorranno restare “seduti e aspettare”, anziché “alzarsi e fare”.

Cosa serve ai liberali italiani per ravvivare, allora, le proprie fortune politiche? Servono indubbiamente: organizzazione e creatività. Ma serve anche radicalismo. Serve, cioè, acquisire quella consapevolezza che Margaret Thatcher ebbe su di sé e sulla sua storia politica dopo la sua prima esperienza da Ministro, quando divenne nota come «Milk Snatcher»: «I learned a valuable lesson [from the experience]. I had incurred the maximum of political odium for the minimum of political benefit». E cioè: cari liberali, se non tornate a essere radicali, otterrete sempre minimi risultati e solo massimo discredito per la vostra causa.