BDV diritti grande

Quale che possa essere la legge sulle unioni civili che verrà prima o poi approvata, per chi ama la libertà, per chi la ama davvero e non per moda, si tratterà comunque di una sconfitta. Non ce l’ho con i promotori del disegno di legge Cirinnà. Ce l’ho con la nostra Costituzione. Per alcuni la più bella del mondo, per me un fallimento sotto molteplici aspetti, a partire dalla definizione che si dà di famiglia.

Ho sempre pensato che una carta costituzionale rappresenti il perno della lotta di un popolo per la libertà. Lotta per raggiungerla, quando la Costituzione si fa traguardo e conquista, e lotta per mantenerla, quando le guarentigie conquistate vengono minacciate. Così è almeno dal 1215, quando Giovanni Senza Terra concedette ai possidenti inglesi la Magna Charta Libertatum, affermando solennemente, al paragrafo 40, che a nessuno sarebbero stati negati, differiti o rifiutati il diritto e la giustizia.

Una Costituzione può essere salda e duratura solo ad una condizione. Che sia duttile, che possa plasmare i suoi principi fondamentali sui cambiamenti che il progresso apporta alla società.

Una Costituzione non parla mai da sola, ovviamente. Parla attraverso il Popolo intero nel momento del più alto stravolgimento, o, durante la vita ordinaria di una nazione, attraverso l’organo da essa stessa designato. Nel nostro caso, la Corte Costituzionale.

La Corte Costituzionale è la voce della nostra Costituzione. Una voce che ahimè, in materia di famiglia e matrimonio, non parla affatto il linguaggio del progresso e della libertà. E non è affatto elastica.

Qualche giorno fa il Presidente Sergio Mattarella ha sollevato alcuni dubbi di costituzionalità sul disegno di legge Cirinnà, che nella sostanza e al di là della diversità di nomi impiegati, sembrerebbe equiparare oltre misura il matrimonio alle unioni civili. Troppi sarebbero, si dice, i richiami contenuti nel disegno di legge alle norme dettate in materia di matrimonio. A giustificazione dei suoi dubbi il Presidente ha citato la sentenza n. 138 del 2010 della Corte Costituzionale, che ha riservato il monopolio sul matrimonio alle coppie eterosessuali, stabilendo che le coppie omosessuali possano essere riconosciute solo come semplici formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost.

In breve, per la Corte, l’art. 29 della Costituzione, affermando che "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio", farebbe riferimento solo ed esclusivamente ad un’unione fra persone di sesso diverso. Per la Corte, pertanto, due persone dello stesso sesso, non potendo vincolarsi solennemente, non potrebbero mai formare una famiglia.

In questa negazione la Corte è spietata e il diritto, da voce dei deboli, degli oppressi e degli indifesi, si fa fredda tradizione. La considerazione da cui la Corte muove è che “l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi, nel quadro di «una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio”. Di fronte a questa consolidata tradizione, l’amore di due omosessuali è costretto a soccombere. Nessuna famiglia in Italia per loro, perché nessun matrimonio è possibile.

In cosa può sfociare, allora, l’amore di due omossessuali, la voglia di giurarsi fedeltà, l’essere pronti a morire l’uno per l’altro, in cosa? In una “formazione sociale”, ossia, come ricorda la Corte stessa, una “forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico”. Parole glaciali, che rinchiudono la libertà in un uno scantinato.

È vero che la Corte Costituzionale, ci mancherebbe altro, riconosce all’unione omossessuale “il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”. Ma è anche vero che al contempo esclude “che l’aspirazione a tale riconoscimento possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio”.

Una “condizione di coppia”. Questo è quello a cui possono aspirare oggi due omossessuali pronti a giurarsi fedeltà, ad assicurarsi solennemente assistenza morale e materiale, pronti a morire l’uno per l’altro. A sentimenti uguali, per la nostra Costituzione, corrispondono tutele di coppia differenti. Di serie A e di serie B. Siete etero? Il matrimonio fa per voi. Siete omo? Potete essere una bella “condizione di coppia”, una bella “formazione sociale”. E scordatevi di avere gli stessi diritti, sarebbe incostituzionale.

Mettetevi per un attimo nei panni di una coppia omosessuale. Anche voi, etero convinti, che non riuscite a capire perché abbia veramente senso negare il matrimonio alle coppie omosessuali, ma che di fronte al vostro senso morale preconcetto ritenete che ciò sia giusto. Immaginate per un attimo di far parte di quella coppia omosessuale che desidera giurarsi quella stessa fedeltà, quello stesso rispetto che magari avete giurato voi al vostro partner eterosessuale. Non avvertite un fastidioso senso di oppressione? Non vi sentite diversi?

Ma qual è la ragione che porta la Corte Costituzionale a sancire una simile differenza? In una parola: la tradizione. Una pietra tombale per ogni velleità di uguaglianza. Sul punto, però, il ragionamento della Corte si fa più incerto e contraddittorio ed è costretto ad erigersi a dogma, ad attingere ad una consuetudine millenaria più che a fondati argomenti di diritto.

“È vero - sostengono i giudici - che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata”.

Tale “nucleo della norma” sarebbe costituito proprio dall’eterosessualità del matrimonio. Perché “è inevitabile concludere che i costituenti tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942 (ossia prima della Costituzione, n.d.r.), che stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso”. “Si deve ribadire - conclude la Corte - che l’art. 29 Cost. non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto”. Non avrebbe quindi senso parlare di discriminazione, perché “le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”.

Questa tecnica di argomentazione è chiamata originalista. Si tratta di una tecnica di per sé fragile e discutibile, basata com’è sulla supposizione della volontà effettiva dei costituenti (“original intent”). Nel caso di specie questo modo di argomentare appare ancor più claudicante, perché non giunge alla conclusione che i costituenti “vollero” una particolare qualifica per il matrimonio, ma solo che “presero atto” di qualcosa che già esisteva da millenni, ritenendolo immutabile. La sentenza 138 è stata molto commentata in dottrina. È vero che per alcuni interpreti si tratterebbe di pronuncia dalla portata non così vincolante, poiché la negazione del matrimonio per le coppie omossessuali sarebbe frutto di un semplice obiter dictum, ossia di un’affermazione incidentale, che sta al di fuori dell’oggetto diretto della decisione.

In realtà, l’argomento originalista usato dai giudici è tale da definire una volta per tutte la nozione costituzionale di matrimonio. Un macigno per le scelte future del legislatore, come qualcuno ha detto. Dopo questa sentenza, infatti, solo una modifica dell’art. 29 Cost. che precisi che il matrimonio può stringersi anche fra persone dello stesso sesso, potrebbe portare piena eguaglianza.

Giuridicamente si tratta, quindi, di argomento insuperabile. Ed in questo appare spietato. Sostenere che i nostri padri costituenti non possano che aver considerato il matrimonio tradizionale, quello fra uomo e donna (si noti però che i lavori preparatori nulla dicono a riguardo) ed elevare questo presupposto a nucleo immutabile della norma significa incatenare la libertà e il progresso. Significa che per la nostra Costituzione una coppia omosessuale non potrà mai formare una famiglia. Mai. A Costituzione vigente mai.

Ma ciò significa anche rinnegare lo stesso motivo per cui una Costituzione nasce: la promozione incessante della libertà di un popolo. Mi sbaglierò, ma ho sempre ritenuto che una carta costituzionale, e così l’organo deputato a parlare per essa, costituisca la sede naturale della giustiziabilità dei diritti. Della rivendicazione sociale contro l’oppressione.

È vero che in democrazia la sede più corretta della lotta per i diritti è la politica. Ma il riconoscimento di un diritto non può sempre attendere il consenso della maggioranza. Ed in quel caso la carta costituzionale diventa legittima sede di rivendicazione. Diventa legittimo potere contro-maggioritario. La famosa sentenza Obergefell v. Hodges, con cui l’estate dell’anno scorso la Corte Suprema degli Stati Uniti ha esteso l’istituto del matrimonio anche alle coppie omosessuali, ha sostenuto che le quattro ragioni che tradizionalmente supportano il matrimonio fra coppie etero trovino piena applicazione anche per le coppie omo.

Per prima cosa, il diritto al matrimonio è strettamente connesso alla libertà di autodeterminazione dell’individuo, quale che ne sia il sesso, ovviamente. In secondo luogo, attraverso il matrimonio l’ordinamento supporta e tutela un’unione tra due persone come nessun altro istituto può fare. In terzo luogo, il matrimonio è l’istituto che offre maggiori garanzie agli stessi figli di genitori omosessuali che decidano di unirsi fra loro. Infine, per la Corte americana il matrimonio rappresenta una keystone, una chiave di volta dell’ordine sociale e per questo va incentivato fra tutti coloro che, a prescindere dal sesso, vogliano solennemente unirsi.

Quella sentenza è un capolavoro di libertà. Un faro da tenere accanto al comodino e leggere ogni sera. Come hanno ritenuto i giudici americani “Il diritto di sposarsi è fondamentale per una questione di storia e tradizione, ma i diritti non derivano soltanto da fonti antiche. I diritti sorgono anche da una migliore comprensione di come gli imperativi costituzionali possano definire una libertà che rimane urgente nell’era in cui viviamo”.

La tradizione è una guida e non un carceriere, diceva William Somerset Maugham. Gli Stati Uniti l’hanno compreso appieno. Noi abbiamo ancora molta strada da fare.