renzi3

La data politicamente fatidica del 2016 scoccherà dunque nel prossimo autunno, quando verrà fissato il referendum confermativo della riforma costituzionale, cui Renzi ha affidato, non solo simbolicamente, il destino della propria leadership.

Nella scelta di drammatizzare il voto sul referendum c’è chi legge l’esigenza di arginare preventivamente gli esiti di elezioni amministrative che non si annunciano né facili, né favorevoli per il PD e di neutralizzare la strategia di logoramento che la minoranza interna continua a perseguire senza interruzione, anche se al momento con scarse fortune, contro il presidente-segretario.

In ogni caso, il referendum, che verrà dopo altri nove mesi di guerriglia politico-parlamentare senza esclusioni di colpi, e dopo l’esito del voto a Roma, Milano, Napoli, Torino e negli altri capoluoghi, non potrà certo parare i fendenti che nel frattempo le vicende politiche avranno eventualmente inferto alla leadership renziana. In caso di capitolazione in una o più grandi città o di qualche scivolone parlamentare, Renzi si presenterà al referendum avendo sul groppone anche queste ferite e queste sconfitte, che le riconosca o meno come proprie.

Inoltre, come è evidente, Renzi si presenterà al voto con uno svantaggio, sulla carta, notevole. A sostenere la riforma c’è un pezzo della maggioranza e del PD, a contrastarla tutti gli altri. Inoltre, il voto sul referendum tende naturalmente a galvanizzare e a mobilitare il voto contro, più che quello favorevole, e a consentire l’alleanza “tecnica” tra le opposizioni, politicamente non alleabili, della destra forza-leghista e del M5S. A peggiorare la situazione non è neppure escluso – è lo scenario che la sinistra Pd cerca di propiziare - che a consentire l’approvazione della riforma al Senato (cioè il raggiungimento di quota 161 senatori nella seconda e decisiva lettura) siano proprio i voti “impresentabili” del gruppo di Verdini.

Last but not least, c’è anche il merito della riforma costituzionale che andrà al voto, cui favorevoli e contrari continuano a assegnare un’epocalità che, in positivo o negativo, decisamente non merita. Ma questo è tuttavia l’aspetto “democraticamente” meno rilevante del referendum, che Renzi vuole su di sé, più che sulla riforma, e che i suoi avversari imposteranno contro di lui, contro la maggioranza e contro il governo.

Quello della prossima primavera è dunque un referendum matrioska, che ne contiene altri, estranei alla materia, ma assai più decisivi per orientare il voto degli elettori. Sarà evidentemente, oltre che su Renzi, un referendum sull’Europa, proprio perché contro un premier e una maggioranza che, volente o nolente, è identificata come europeista in un panorama politico in cui dominano le parole d’ordine anti-europee, di destra e di sinistra, di popolo e di élite. In subordine, sarà un referendum sulla Merkel – che in campagna elettorale, si accettano scommesse, sarà citata e insultata dal fronte contrario almeno quanto la Boschi ­– e sul rapporto del nostro Paese con l’unica leader politica europea che continui a incarnare culturalmente un’alternativa credibile e “vincente” alla disgregazione e alla rinazionalizzazione dell’Unione.

Renzi, stando al merito della riforma, potrebbe essere tentato di giocare la partita referendaria su un piano paradossalmente antipolitico: “Io taglio istituzioni, seggi, stipendi, poltrone, i miei avversari vogliono continuare a ‘mangiare' ...”, ma rischierebbe di perderla su di un piano diverso: quello del racconto che ormai si è sostituito a quello anti-politico nella vulgata denigratoria della stampa e della politica popolare, e che addebita a Berlino, Bruxelles e Francoforte (e non solo ai politici ladri o alla Casta) la responsabilità dei nostri patimenti.

Se però il premier può pensare di essere più anti-politico degli antipolitici – proprio perché la sua immagine rimane quella di un outsider rottamatore di vecchi riti e di vecchi equilibri – non può sperare di diventare, per esigenze di consenso, più anti-europeo degli anti-europei. Nella sua ascesa al cielo del PD e del governo e nel successo alle europee del 2014, il premier ha risciacquato in una retorica giovanilistica e smart i temi di un europeismo sostanzialmente mainstream. Oggi, a cambiare spartito, non sarebbe credibile e apparirebbe a rimorchio dei suoi avversari.

Renzi non può insomma sperare di cavarsela come Cameron, che conta di vincere il suo referendum contro l’Ue, non per uscirne, ma per rimanere in un’Europa più piccola e à la carte e gioca abilmente a rappresentare, insieme, il più europeista degli anti-europeisti e il più anti-europeista degli europeisti. Se gli italiani si convinceranno in maggioranza che quella che porta a "meno Europa" è la strada migliore per difendere i nostri interessi nazionali, il voto anti-europeo del prossimo autunno si porterà via anche Renzi e per fermare Grillo e Salvini non servirà a niente la strategia dei “pugni sul tavolo” a Bruxelles.

@carmelopalma