sarkozy hollande

Appena letti i risultati del primo turno delle elezioni regionali francesi, avevo pensato che servisse un “patto repubblicano” per arginare l'avanzata del Front National. E non come condizione episodica, non solo come rimedio estremo all’emergenza, ma come prospettiva di stabile durata.

Oggi, se possibile, ne sono anche più convinto. Ho ancora negli occhi la scena, dolorosa e tuttavia magnifica come solo certe interpretazioni del dolore sanno essere, di Lionel Jospin che nella stessa sera in cui resta fuori dal ballottaggio delle presidenziali, il 21 aprile 2002, prima annuncia il proprio definitivo ritiro dalla scena politica (che tale resterà) e subito dopo il sostegno socialista a Chirac, contro la minaccia lepenista.

Allora funzionò bene, Chirac stravinse e a Jospin toccò il congedo più affascinante e letterario nella storia della politica. Stavolta, malgrado un sistema elettorale diverso da quello delle presidenziali (poichè al ballottaggio non sono andati solo i primi due, ma tutte le liste che al primo turno avessero raccolto almeno il 10% dei voti, avendo la possibilità di formare nuove alleanze con chi avesse preso almeno il 5%) il risultato è stato raggiunto, soprattutto per la “sensibilità repubblicana” mostrata dall’elettorato, e il FN non è riuscito a conquistare neppure una regione.

In alcuni casi, peraltro, il candidato del Partito Socialista si è ritirato per favorire il candidato di Les Republicains (il nuovo partito di Sarkozy, già UMP) mentre analoga disponibilità non si è avuta da parte dei candidati moderati, nelle regioni in cui LR partiva più indietro.

Il tema dirimente è, sempre di più, quello della centralità. Non è difficile comprendere come in questo quadro – con questi equilibri delle forze in campo – l’ex presidente della Repubblica sappia appunto di essere centrale, o almeno più centrale, e potenzialmente avvantaggiato in uno schema di secondo turno. Una certa presuntuosa superficialità di analisi è tuttavia, non da oggi, il principale limite di Sarkozy (lo abbiamo visto con il tracollo di fine mandato presidenziale, ed in particolare con la gestione della questione libica). Sicchè probabilmente egli non considera che se nel brevissimo termine questa strategia può anche pagare, nel medio rischia di proiettarlo di fronte ad un nuovo, non così improbabile problema: quello di riuscire ad arrivarci, al secondo turno.

Se il FN proseguirà infatti sulla strada della propria “normalizzazione”, almeno formale, la competizione su un certo elettorato conservatore si farà più serrata, e non è detto che LR non possa subire ulteriori erosioni alla propria destra. Analogamente, in una prospettiva di radicalizzazione del voto anche sul versante progressista, con una conseguente rincorsa del PS a conquistare nuovi spazi vitali al centro, i Repubblicani potrebbero veder naufragare le proprie aspirazioni, ritrovandosi in mano quello che chiameremo, per intenderci meglio, “il cerino di Bayrou”. Certo, si tratterebbe di un cerino più lungo, ma questa non pare in verità una gran consolazione.

E allora è del tutto evidente che in un sistema, o meglio in una serie di sistemi elettorali che dimostrano – non solo in Francia, ma in tutta Europa – una crescente insofferenza verso le categorie tradizionali (il socialismo democratico, il popolarismo, il liberalismo) quell’idea e quell’obiettivo di “essere centrali” debbano associarsi, oltre che al particolarismo della strategia, anche e soprattutto ad un più generale senso di responsabilità istituzionale: che deve appartenere a uomini e forze che si ritengano, o ambiscano ad essere “di governo”.

In Italia, in una situazione ancor più ingarbugliata e meno decifrabile (perché il M5S sfugge ad ogni classificazione storica) il PD di Matteo Renzi ha svolto nel modo più corretto e chirurgico il ruolo e la funzione di centralità di cui si diceva sopra. Sa tuttavia bene, Renzi, che questo in prospettiva potrebbe non bastare: motivo per il quale si guarda intorno, cercando di capire come conquistare ulteriori spazi, a partire da quelli lasciati liberi dal declino berlusconiano.

Del resto, è più o meno quanto ha detto Dario Nardella in una recente intervista, parlando di un “partito della responsabilità” post-ideologico e alternativo allo schema rigido destra-sinistra, che altro non sembra essere se non un passo verso l’ipotesi di sintesi qui richiamata. Sintesi, appunto, non episodica, non transitoria, ma strutturale, e comunque capace di rappresentare vasti spazi di società che sono profondamente cambiate e che continuano a cambiare. Se le categorie tradizionali rischiano di essere travolte, l'ipotesi di una sintesi europea (perché l’Europa è tanto il vero campo da gioco, quanto il vero valore da difendere) di popolarismo, liberalismo e socialismo democratico sembra diventare un'opzione credibile: che di quel patto repubblicano, rispolverato come extrema ratio ad ogni sussulto lepenista, faccia invece la propria quotidiana e durevole ragion d'essere.

La “questione repubblicana”, o come la si voglia chiamare, è ormai alle porte, e fingere di negarne la portata, solamente per continuare a godere di residue e sempre più precarie rendite di posizione, rischia di generare conseguenze molto gravi e imprevedibili. A partire, ad esempio, dalla politica internazionale: in cui, considerati gli inquietanti posizionamenti delle forze più radicali, la tempestiva costituzione di quel patto può diventare una polizza sul futuro dell’Europa e degli Europei.