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Mentre spopola in rete e sulla stampa il prêt-à-porter filosofico sul fanatismo jihadista e si moltiplicano i pareri pro veritate sulla relazione (asseritamente obbligata o inesistente, quasi mai problematica e relativa) tra la fede islamica e tentazioni totalitarie, da questo lato della frontiera - quello assediato dal terrorismo kamikaze - a finire sul banco degli imputati sono i processi di integrazione politica e economica e la natura laica e secolare della società occidentale e delle sue istituzioni, che disarmerebbero gli stati europei di fronte alla sfida, insieme ideologica e militare, dell'islamismo militante.

Se fino a pochi anni fa - anche dopo l'11 settembre 2001 - il senso di colpa anti-imperialistico per le responsabilità occidentali animava una vocazione pacifista e disarmista e esigeva un programmatico disimpegno rispetto alle evoluzioni "spontanee" del mondo arabo e islamico, ora un senso di colpa anti-modernistico interpreta l'emergenza terroristica come la prova della intrinseca debolezza di sistemi politici e sociali pluralistici, che hanno sacrificato ai principi della società aperta i capisaldi dell'ordine politico "naturale", cioè lo stato nazionale, la prevalenza della sicurezza collettiva sulla libertà individuale e l'ancoraggio dell'etica pubblica a fedi e costumi tradizionali.

Sarebbe facile interpretare questi due sensi di colpa come uguali e contrari. Ma sarebbe probabilmente troppo facile, perché esprimono entrambi la medesima diffidenza verso quello che la pubblicistica di destra e di sinistra qualificherebbe come il "pensiero unico" e dunque condividono, anche spiritualmente, un presupposto di fondo, cioè l'avversione verso un ordine politico internazionale astratto e mercatista, a uso e consumo degli interessi del cosiddetto capitalismo globale.

L'interprete francese più rappresentativo della rivolta alla sottomissione islamista, Michel Houellebecq, lo dice apertamente. L'avventurismo militare "criminale" e l'adesione ad un modello di integrazione cosmopolistico sono due facce della stessa medaglia internazionalista e hanno reso più difficile difendere la popolazione e l'interesse nazionale francese. L'unico presidio per la Francia sotto assedio è rappresentato dalle forze di polizia e dall'esercito. E l'unica prospettiva accettabile per rispondere al fallimento della classe politica è la transizione "all'unica forma di democrazia reale, la democrazia diretta".

Non ci vuole troppo allora a capire perché sia Putin l'interlocutore privilegiato di chi pensa che la difesa dalla minaccia islamista passi dalla rinazionalizzazione dell'Europa e dalla demolizione delle politiche e delle istituzioni comuni. Questo legame non dipende solo da una convergenza di interessi e dall'opportunità, che viene offerta su un piatto di argento al Cremlino, di imporre come prezzo dell'alleanza antiterrorista la costruzione di una sorta di Crimea mediterranea nella fascia costiera della Siria.

Putin è alleato dei nazionalisti europei innanzitutto perché è a tutti gli effetti il loro "mahatma". Un'autocrazia plebiscitaria, affidata alla gestione degli apparati di sicurezza, senza alcuna effettiva divisione dei poteri, dove gli oppositori più recalcitranti finiscono regolarmente o condannati o ammazzati: è questo il modello che milioni di europei - e alcuni dei leader più influenti del continente - considerano un possibile rimedio all'insicurezza, all'impoverimento e al deterioramento della coesione civile.

Putin è il mandante ideologico-culturale di quell'internazionale nazionalista, che ha contagiato e avvelenato l'Europa assai più di quanto potrà mai fare l'islamismo salafita. I kamikaze possono ammazzare migliaia di europei. Il nazionalismo populista può espropriarne milioni, indigeni o acquisiti, della libertà politica e civile che siamo soliti definire "europea". ll jihadismo è una minaccia terroristica, ma non sarà mai per l'Europa una minaccia esistenziale pericolosa quanto la miracolosa immortalità che il diavolo del Cremlino promette a chi è disposto a vendergli l'anima.

@carmelopalma