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Sessantasei anni fa il governo cinese, guidato dal leader del partito nazionalista (Guomindang) Chiang Kai-shek, capitolava di fronte all’avanzata comunista. Mentre Mao Zedong annunciava la nascita della Repubblica Popolare Cinese da piazza Tian’anmen, Chiang approdava, assieme ai sigilli imperiali e ai tesori più preziosi della Città Proibita (che ancora oggi formano le splendide collezioni del Museo di Taipei), sull’isola di Taiwan, dove reinstallava la Repubblica di Cina, in attesa di riconquistare Pechino.

Riconquista mai avvenuta, per un evidente squilibrio di forze e per la saggia scelta degli alleati di Chiang di non scatenare una terza guerra mondiale in Asia. Per più di mezzo secolo, dunque, nazionalisti e comunisti hanno entrambi reclamato la sovranità dell’intero territorio cinese: i comunisti definivano, e definiscono tuttora, Taiwan - sulla quale naturalmente non disponevano e non dispongono di alcuna autorità - come una provincia (ribelle) della RPC, mentre i nazionalisti, de facto relegati sull’isola, sostenevano e sostengono, sebbene più flebilmente da quando la comunità internazionale ha definitivamente riconosciuto la legittimità del governo comunista, il diritto a governare sulla terraferma. Posizioni che si sono cristallizzate nel cosiddetto “1992 consensus”, secondo cui entrambe le parti si impegnano a considerare la Cina “una e indivisibile” ma a definirne la sovranità ciascuna secondo il proprio punto di vista.

È dunque lecito definire “storico” l’incontro tra i due presidenti Xi Jinping e Ma Ying-jeou avvenuto il 7 novembre, non fosse altro perché ha posto formalmente fine a un lunghissimo gelo politico (che in virtù del tipico pragmatismo cinese non ha impedito un fiorente scambio commerciale tra le due sponde soprattutto negli ultimi decenni, come testimoniano i 200 miliardi di dollari di interscambio registrati nel 2014). Nel lussuoso hotel Shangri-La di Singapore - città-Stato che per prima ha sperimentato con successo quel “capitalismo confuciano” che ha poi permesso a Taiwan di decollare e che oggi sembra scandire il boom cinese sulla terraferma - i due leader hanno tenuto un colloquio breve ma ad alto contenuto simbolico, in cui Xi, con cravatta rossa, e Ma, con cravatta blu, hanno evitato di chiamarsi “presidente” optando per un innocuo xiansheng (signore). Hanno ribadito che la Cina è una grande famiglia, Xi ha rassicurato Taipei che le forze dispiegate sulle coste non sono dirette contro l’isola e Ma ha chiesto rispetto per i valori taiwanesi. Nulla di sostanziale, beninteso: nessuna road map, nessun nuovo trattato in vista, nessuna soluzione alla Hong Kong (“un paese, due sistemi”), per ora.

Ma la stretta di mano nasconde interessanti significati politici. A gennaio si vota, a Taiwan. E il partito nazionalista di Ma, al potere dal 2008 dopo una breve parentesi di opposizione, rischia di essere sconfitto dai democratici guidati dalla signora Tsai Ing-wen, in testa a tutti i sondaggi. E questo porterebbe a “scongelare” l’accordo del 1992: i democratici danno rappresentanza a una visione “identitaria” di Taiwan che, del tutto assente dal dna originario del Guomindang, abbandona ogni velleità di sovranità sulla terraferma per concentrarsi esclusivamente sullo sviluppo politico ed economico dell’isola. Al tempo di Chiang Kai-shek, una identità taiwanese non esisteva: l’isola, da sempre appendice marginale dell’Impero e resa ancor più estranea da quasi mezzo secolo di pesantissima occupazione giapponese, era vista dai transfughi nazionalisti come un rifugio poco desiderabile, reso inospitale dalla vegetazione tropicale e abitato da arretrate popolazioni aborigene. Il boom economico e la lenta transizione verso il pluralismo politico hanno rafforzato i sentimenti autonomisti e la volontà di scrollarsi di dosso il peso di una rivendicazione ormai lontana.

Dunque, al presidente taiwanese, la stretta di mano regala un posto sui libri di storia e al suo partito consente di ‘ipotecare’ una possibile svolta troppo radicale da parte dei suoi oppositori. A Xi, invece, consente di mostrare il volto “aperto” di Pechino, pronta a riconoscere l’esistenza di una “grande famiglia cinese” nonostante i diversi percorsi storici. Ma Ying-jeou e Xi Jinping interpretano ruoli diversi in una stessa storia. Per entrambi è bene che non si rompa il filo paradossale che tiene unite le due sponde dello Stretto, figlio della stessa visione della storia e dell’identità cinese, l’antico assunto imperiale che “unità è stabilità e separazione è caos”. Ed entrambi, non a caso, vengono da storie politiche autoritarie costruite nel segno del partito-unico (lo è ancora il partito comunista, non lo è più il Guomindang dalla fine degli anni Ottanta).

È peraltro opinione diffusa tra gli osservatori, anche occidentali, che il mantenimento dello status quo sia ancora la migliore soluzione entrambe le Cine. “Una mossa indipendentista di Taiwan potrebbe scatenare l’uso della forza da parte di Pechino per condurre a una riunificazione obbligata”, sostiene il professor Arthur Kleinman di Harvard. A Taiwan, però, in molti sembrano pronti a rischiare. Non certo gli imprenditori, che sanno quale sarebbe il prezzo di uno scontro con Pechino. Fra meno di due mesi si saprà se i cittadini di Taiwan sono pronti o meno ad abbandonare il sogno di rivincita di Chiang Kai-shek. Per ora, si è fatta comunque un po’ di storia.