Stretta mano lobby

C’è molto da fare sul fronte delle relazioni istituzionali in Italia. Non tanto relativamente ai loro interventi nel processo legislativo, quanto più sugli aspetti regolatori del settore.

Quando si parla di lobbying in Italia, nella maggior parte dei casi si parte prevenuti in maniera negativa. Il termine “lobby” è generalmente, nella vulgata, associato a qualcosa di negativo, la maggior parte delle volte in relazione ad entità oscure e volte a truffare i cittadini e a sovvertire l’ordine costituito. Lobby del tabacco, del gioco d’azzardo, farmaceutica o lobby gay sono ritenute portatrici di vizi e delle peggiori nefandezze nelle candide aule della Camera e del Senato.

Ma le relazioni istituzionali, in realtà, sono molto più e molto meglio di tutto questo: rappresentano interessi, che, spesso senza la consapevolezza dei cittadini, li riguardano però in prima persona nel loro ruolo di lavoratori, produttori e consumatori.

Non c’è bisogno di appartenere a poteri oscuri, ad esempio, per evidenziare alcune assurdità nella nuova legislazione sulla vendita delle sigarette, che recepisce un altrettanto assurda normativa europea. C’è bisogno, però, di maggiore chiarezza e maggiore trasparenza nei rapporti tra agenzie di public affairs e istituzioni. Quelle agenzie sono le prime a chiederlo, da anni, e sono proprio quelle istituzioni ad aver fallito nel mettere nero su bianco le regole sulla rappresentanza di interessi.

In Italia non c’è alcuna legge in tema, nonostante oltre 50 proposte arrivate dagli scranni parlamentari dal dopoguerra ad oggi. A livello regionale solo Veneto, Abruzzo e Molise hanno istituito delle leggi apposite. E non ci vorrebbe neanche molto, basterebbe cominciare copiando pari pari le normative europee a riguardo - istituendo, ad esempio, un registro dei soggetti ufficialmente accreditati al dialogo con le istituzioni.

Indagando si scoprono molte cose che zittiscono dietrologi e complottisti: ad esempio che il maggior numero di soggetti accreditati per il “lobbismo” italiano all’interno delle Istituzioni europee sono ONG (23%), seguite da associazioni di categoria (21%), imprese (12%) e centri studio (11%; dati Transparency International Italia 2015). E che i settori più rappresentati non sono tabacco, gioco d’azzardo e armi ma ambiente (353 lobbisti registrati), imprese (293), ricerca e tecnologia (290), cultura (275) ed educazione (271).

Altra nota dolente per l’Italia è la trasparenza: sebbene Matteo Renzi abbia annunciato una legge sulla libertà di informazione, ad oggi non abbiamo ancora visto nulla. Ottenere i testi legislativi e altri dati, in particolare nei momenti cruciali per gli stakeholders come il passaggio alle e dalle commissioni tematiche, è molto complicato.

Secondo un sondaggio realizzato dall’associazione no profit “Diritto di Sapere” nel 2013, solo il 27% delle richieste di dati agli enti pubblici ha avuto esito positivo, mentre il 73% è caduto nel vuoto o in fondo a qualche cassetto. E dire che basterebbe così poco per sistemare il problema della trasparenza e delle relazioni tra lobbisti ed istituzioni in Italia.

Come suggerisce la stessa Transparency International, occorrerebbe quanto prima istituire un registro pubblico dei lobbisti, garantito da un’agenzia super-partes come l’Autorità Nazionale Anticorruzione. Al superattivo Presidente Cantone consigliamo, prima di gettarsi in eventuali campagne elettorali, di mettere subito mano alla situazione, visto che probabilmente le agenzie di lobbying aspettano solamente il “la” dallo Stato per rendere ufficiale la propria posizione e sarebbero disponibili ad autoregolamentarsi con un codice di comportamento concordato.

Occorrerebbe poi un “Freedom of Information Act” che renda pubbliche tutte le informazioni non sensibili nonché i documenti prodotti dagli enti statali, che regoli e renda noti i contenuti degli incontri tra rappresentanti delle istituzioni e agenzie di rappresentanza di interessi, oltre che l’apertura al pubblico del processo legislativo.

Ultimo ma non meno importante, occorre limitare per via legale l’intreccio che lega i politici alle agenzie di lobbying, impedendo il fenomeno delle cosiddette “porte girevoli”, che in Italia sono ben oliate: per molti deputati e senatori basta girare la porta a fine mandato per un facile impiego nelle agenzie di lobbying e qualche telefonata per influenzare gli ex colleghi, magari rimasti nelle stesse commissioni in cui si era insieme in precedenza. Un periodo di riflessione post-lavoro prima di passare dall’altra parte della scrivania, o del telefono, dovrebbe essere obbligatorio per ridurre il rischio di influenze poco disinteressate.

In tutto questo un importante ruolo può giocarlo il giornalismo investigativo, che però ha anche un lato rischioso: da una parte può indagare ed arrivare dove altri non guardano, scoprendo altarini e contribuendo alla trasparenza. Dall’altro, però, può favorire il diffondersi di bufale o nutrire un sensazionalismo pericoloso, che riempie le prime pagine a caratteri cubitali al momento dello scandalo, ma si riduce a scarni trafiletti, quando va bene, se le questioni si risolvono con un nulla di fatto o un’assoluzione, spesso rovinando aziende e personaggi pubblici innocenti.

Prendere di petto la questione dei rapporti tra lobby ed istituzioni deve essere una priorità per il Governo Renzi, non solo per uniformarsi a quanto avviene a Bruxelles, a Washington e in molti altri paesi, ma soprattutto per fare in modo che la trasparenza non sia solo uno slogan.