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Sono molte le questioni che si intrecciano attorno alla questione dei rifugiati, o dei migranti in generale, ed è difficile tentare di sbrogliare la matassa senza intercettare inevitabilmente i colpi delle contrapposte demagogie che hanno ormai saturato il dibattito nel nostro paese.

Intanto, può aiutare vedere questi grafici: il primo rappresenta la piramide demografica in Italia nel 1950, e accanto quella attuale, del 2015. Sono dati del World Population Prospect delle Nazioni Unite, appena rivisto alle stime del 2015. Poi, più sotto, le stesse piramidi proiettate al 2050 e al 2100. E’ possibile vedere le stesse stime, insieme a molte altre, di tutti i paesi del mondo.

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L’immagine che viene fuori del nostro paese, e più in generale dell’Europa Occidentale, è decisamente preoccupante. La speranza di vita aumenta, la popolazione invecchia, le nascite diminuiscono, gli inattivi supereranno la popolazione attiva, e il welfare diventerà - sta diventando - sempre più insostenibile. Si può alzare l’età pensionabile, certo, in proporzione all’aumento dell’aspettativa di vita, ma la realtà ci dice che insieme alla vita si allunga la vecchiaia, non la giovinezza, e non è possibile trattenere più di tanto le persone a lavoro. Al tempo stesso si entra sul mercato del lavoro più tardi di quanto non succedeva in passato, per entrarci meglio preparati, ma anche questo influisce negativamente sul numero di persone inattive che sono, e saranno sempre di più, sulle spalle di una platea attiva sempre più risicata.

A guardare questi grafici, la prima sensazione è che abbiamo un disperato bisogno di immigrati, rifugiati o migranti poco importa. Ci vogliono braccia, molte, per ricominciare a sostenere la piramide rovesciata della nostra demografia. Aprire le frontiere, dunque. Sì, ma come? Facile a dirsi, assai meno a farsi, e per molti ordini di problemi, anche a voler trascurare quello che sembra il più immediato, ovvero la sindrome di rigetto che le popolazioni europee, non solo italiane, hanno nei confronti del fenomeno migratorio e le forze politiche che, in maniera sempre più decisa, monetizzano in termini elettorali questo rifiuto.

Oggi la questione è impantanata sul trattato di Dublino, che impone al paese di primo approdo di vagliare e accoglierle domande di asilo. Applicato alla lettera, il trattato scaricherebbe sull’Europa di frontiera - Spagna, Italia e Grecia prima di tutti - l’onere dell’accoglienza. Dal momento che i governi dei paesi nelle retrovie non hanno intenzione di affrontare il dissenso interno che procurerebbe loro una ridiscussione più “aperturista” del trattato di Dublino, le autorità italiane - ma anche di altri paesi, come dimostra la dirompente apertura del corridoi macedone dei giorni scorsi - lasciano sciamare i rifugiati verso gli altri paesi, omettendo di registrarne l’arrivo. Domande di asilo accettate dall’Italia nel 2014? Quarantacinque (45).

E loro vanno via ben volentieri, per il momento, dato che se la guerra e la miseria sono il movente della fuga, il traguardo è il benessere che deriva da una vita di lavoro, e paesi come la Germania, l’Olanda e la Svezia offrono speranze di riscatto sociale ben superiori a quelle che, oggi, offre il nostro paese. E qui il primo problema, perché se non si fa altro che sentir parlare di quote di migranti assegnate ad ogni paese - la formula per superare Dublino - bisogna aver presente che la distribuzione forzata di centinaia di migliaia di persone verso diverse destinazioni secondo un criterio che tenga conto solo del rapporto tra popolazione residente e ingressi, e non dell’offerta di lavoro (o più semplicemente della loro volontà), contribuirebbe a creare squilibri, piuttosto che attenuarli.

L’Europa è una area di libera circolazione delle persone, oltre che dei capitali e delle merci. Come si potrebbe impedire ai rifugiati, una volta assegnati a questo o a quel paese, di riprendere a circolare verso diverse destinazioni? Come ci dovremmo comportare con i loro figli? Avremmo generazioni di nuovi europei per i quali Schengen non vale? E poi, che interesse avrebbe oggi un immigrato a stare in Grecia, e la Grecia ad accoglierlo, se l’economia greca è in crisi e non offre opportunità di lavoro? Le quote potrebbero avere l’effetto indesiderato di appesantire il welfare dei paesi ancora in recessione, o con tassi di crescita asfittica, come il nostro. Perché alla fine, se il problema è la piramide rovesciata, è la crescita economica l’unico vero motore in grado di capovolgerla di nuovo, anche attraendo forze e braccia fresche da fuori dei nostri confini. 

E alla fine potremmo trovarci a discutere di un problema che non ha rimedio: se anche dovessimo convenire che l’immigrazione fosse un male, potremmo essere costretti a prendere atto che comunque non siamo in grado di fermarla, come dimostrano gli Stati Uniti, che sono diventati un paese sostanzialmente bilingue, inglese e spagnolo, proprio mentre la frontiera con il Messico diventava la più militarizzata del pianeta, come ha intelligentemente fatto notare Massimo Bordin ieri sul Foglio. Antiproibizionismo, quindi, in un ottica di riduzione del danno? Ne abbiamo già parlato, su questi pixel.

Quel che è certo, è che del problema bisognerebbe cominciare a parlare seriamente, ha ragione Marco Valerio Lo Prete a invocare un dibattito concreto, all'americana, dove all'ideologia si sostituiscono i dati e l'analisi, cercando di dimenticare l’assordante e insopportabile rumore di fondo che viene dalla propaganda xenofoba leghista e grillina. Accettando l’idea che vada affrontato con coraggio e decisione. Come ha fatto la Germania, ad esempio, che ha deciso di sospendere il trattato di Dublino per i profughi siriani, aprendo le frontiere tedesche al loro arrivo, e mettendo di fatto un’ipoteca su di loro nel momento in cui si dovesse decidere per le quote. E invece di chiederci, strumentalmente, le ragioni per le quali la Germania ha deciso di accogliere solo i siriani, potremmo cominciare a chiederci perché non abbiamo il coraggio di fare lo stesso, ad esempio, con gli eritrei. Siamo sempre in tempo.