SYRIZA

La vicenda greca, per il suo sviluppo e i suoi protagonisti, si presta naturalmente a sovrapporre significati simbolici e antropologico-morali a un dissidio che ha una natura e un’origine del tutto politica e non è per questo meno serio, né meno grave per i destini della costruzione europea.

La rappresentazione dello scontro come una lotta impari, e dunque eroica, tra il Davide ellenico e il Golia tedesco o, al contrario, come una reazione legittima della formica tedesca alle pretese parassitarie della cicala greca è una proiezione degli stereotipi culturali che impregnano il discorso pubblico europeo – e come tutti gli stereotipi insieme riflettono e distorcono la verità dei fatti – ma non fornisce alcuna chiave di interpretazione realistica di questo conflitto.

I temi sottesi al racconto della resistenza ellenica hanno una natura volutamente epica: l’attivazione del processo democratico contro la dittatura tecnocratica di Commissione, Consiglio e Eurotower; la riscoperta di un senso solidale e partecipe dell'identità europea, contro la contabilità “ragionieristica” delle partite finanziarie che legano e dividono gli stati membri dell’Ue; la rivendicazione della necessaria flessibilità delle regole di un’Europa pluralistica e non omologabile alla cultura nord-europea... E si potrebbe continuare.

Per converso, anche le ragioni dell’austerità europea potrebbero trovare, se qualcuno ci si dedicasse con qualche fantasia, una narrazione altrettanto eroica e agiografica. È quantomeno sottovalutato, ad esempio il successo con cui – cambiando in fretta e furia registro, rispetto alle rigidità dei parametri e delle prassi imposte da Mastricht – i “banchieri” della BCE e i “burocrati” di Bruxelles hanno tenuto in piedi la baracca del mercato comune e delle quattro libertà fondamentali, malgrado i difetti di fabbrica della costruzione europea, quando la tempesta politico-finanziaria, abbattendosi sull’eurozona, ne ha fatto esplodere le asimmetrie e le tensioni nazionalistiche latenti.

Allo stesso modo, si potrebbe agiograficamente ascrivere al rigore di Bruxelles una difesa intransigente e egualitaria del rule of law europeo – fosse pure di quello “stupido”, imposto prima della Grecia ad altri paesi – contro il principio particolaristico della negoziabilità permanente di ogni regola e di ogni accordo, a seconda delle circostanze e dell’interlocutore – che è esattamente ciò a cui Tsipras si appella per la Grecia.

Il problema di queste rappresentazioni, come dicevamo, non è però che non sono vere, ma che sono del tutto inutili e fuorvianti, perché riducono a una sorta di commedia di caratteri antropologico-morali una questione al cento per cento politica, dissolvendone così l'oggettività e la comprensibilità. Riportato ai fondamentali, lo scontro tra la Grecia e l'Unione "tedesca" non è infatti quello tra due popoli e paesi allontanati da una reciproca diffidenza, ma tra due modelli del tutto incompatibili di unione politico-economica.

Il primo, quello di Berlino e di Bruxelles, è retto dal principio della rigida sorveglianza, ma non della piena integrazione fiscale tra i paesi dell'eurozona, che comporterebbe peraltro una più decisa ingerenza dei paesi "garanti" sui bilanci dei paesi "garantiti" e comunque presupporrebbe una tendenziale convergenza degli standard economico-civili dei secondi verso quelli dei primi. La Germania e i politici di osservanza teutonica non sono stati storicamente i nemici, ma i fautori del rafforzamento dei vincoli politico-istituzionali all'interno dell'area euro, proprio per evitare che un'Europa à la carte indebolisse la costruzione comunitaria sia rispetto alle sfide interne che a quelle esterne e facesse prevalere le spinte centrifughe sulle esigenze di coesione. In questa chiave robustamente integrazionista, si interpretavano da parte tedesca anche le sfide della politica estera e di difesa europea nel dopo-Guerra Fredda.

Il secondo modello - che unisce le sinistre e le destre anti-tedesche dell'intera area mediterranea - interpreta invece la coesione europea nei termini del consolidamento "costituzionale" di un sistema di dipendenza economica e fiscale dei paesi meno competitivi da quelli più competitivi e dunque la costruzione comunitaria come un sistema redistributivo di risorse e non di opportunità. Quello degli stati più deboli rivendicano non è affatto un approccio più progressista ed europeista, ma più nazionalista di quello dei tedeschi.

Questo scontro profondo non è affatto fotografato dalle eterne discussioni sugli effetti collaterali della cosiddetta austerità, che in Europa ha avuto applicazioni e esiti diversi e che per la gran parte degli analisti mostra comunque i limiti di un meccanismo troppo automatico e quasi pavloviano di contenimento dell'indisciplina fiscale e di disincentivo dell'azzardo morale. Tsipras, come del resto il M5S o Podemos, non mette in discussione l'austerità, ma mette più radicalmente in discussione il disegno europeo come ordine politico che trasferisce sul piano delle relazioni tra gli stati i rapporti di "sfruttamento" del sistema economico euro-occidentale. È evidente che qualunque lettura antropologico-morale impedisce di cogliere il vero nucleo della contesa politico-ideologica, che si è aperta attorno al concetto di solidarietà europea e di cui Tsipras è l'interprete democraticamente più forte, ma tutt'altro che isolato.

Da Podemos, a Siryza, passando per il Front National, il M5S, e la Lega, tutte le opposizioni politiche all'asse Berlino-Bruxelles, malgrado le differenze apparenti sul tema dell'uscita dall'euro, realizzano una tutt'altro che inedita convergenza tra estrema destra ed estrema sinistra sul nodo cruciale della costruzione europea, ma anche dell'ordine globale, e denunciano i processi di integrazione economica come forme di espropriazione della sovranità nazionale, di impoverimento coatto degli stati non allineati al pensiero unico liberista e di colonizzazione economico-culturale delle periferie dell’impero.

Da una parte, insomma, c'è chi difende l'idea dell'Europa - euro compreso, imposto peraltro in funzione antitedesca dopo la riunificazione - come strumento di unità e di emancipazione politica ed economica dei popoli europei, dall'altro c'è chi usa l'ideale europeo come forma di resistenza - quando non di sabotaggio - all'ordine politico e economico globale. È abbastanza evidente che tra gli uni e gli altri non c'è una terza via, né una mediazione possibile, e che è abbastanza inutile affannarsi a cercarla, no?