Toghe cortecost

La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il blocco della contrattazione del pubblico impiego, misura introdotta dal Governo Berlusconi, e poi confermata dagli ultimi governi, come modo per piegare parte della spesa pubblica in un contesto di ristrettezze di bilancio. La decisione non ha, però, effetti retroattivi.

Tutti i risparmi ottenuti nel bilancio dello stato sono fortunatamente al riparo da possibili contenziosi simili a quelli prodotti dalla recente decisione della Corte stessa sulla deindicizzazione delle pensioni.

Ci troviamo di fronte a uno strano utilizzo del vincolo di bilancio imposto dall’articolo 81 della nostra Costituzione, che pare essere stringente, sì, ma secondo la logica delle targhe alterne. Pensionati sì, pubblici dipendenti no, in ciò che sembra essere un gioco in cui è il caso - o forse non solo lui - a decidere se l’impatto delle sentenze abbia conseguenze rilevanti sui conti pubblici. Il Governo, rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, si è dimostrato più attento e vigile nel far valere la sua causa di fronte alla Corte, a differenze di quanto avvenuto per la decisione sulle pensioni.

Ottimo così, soprattutto per i contribuenti italiani del settore privato, su cui sarebbe ricaduto l’onere di aumenti retroattivi delle retribuzioni pubbliche, e su cui tale onere è rimasto nei lunghi anni del liberale governo Berlusconi, che dal 2001 in avanti, per assicurarsi la non belligeranza - definiamola così - del settore pubblico, si diede alla pazza gioia con aumenti contrattuali al di fuori di ogni logica economica, notevolmente superiori alla dinamica salariale del settore privato. Quasi quindici anni dopo, eccoci qui, a mostrare nuovamente gli effetti di una scelta scellerata dell’epoca, ben visibili nel grafico sottostante.

Grafico 1: Andamenti delle retribuzioni lorde pro-capite nella PA e nel privato, indici 2000 = 100

blocco 1

Fonte: Aran.

Nella prima metà degli anni 2000, le retribuzioni lorde del settore pubblico sono cresciute in media annuale del 4.9% in termini nominali, ben più dell’inflazione, contro una crescita media annuale del 3.5% delle retribuzioni private. Il lettore può immaginare da solo, almeno a grandi linee, in che situazione ci troveremmo oggi, nel caso la linea blu avesse continuato nel suo trend folle: in default, la grande specialità di casa Berlusconi - mai padroneggiata appieno, a dire il vero, come una maestosa rovesciata che finisca irrimediabilmente con un capitombolo.

L’effetto del blocco sul premio salariale pubblico, ovvero la maggiore remunerazione pubblica rispetto quella privata (con l’esclusione dei dirigenti), a parità di caratteristiche della manodopera, cioè al netto degli effetti dovuti alla diversa composizione dei lavoratori, è mostrato nel grafico 2. Dopo un picco massimo dell’ordine del 25%, per la PA in senso stretto, raggiunto nel 2006, quasi dieci anni dopo il premio si situa attorno al 10% per la PA, al 5% per il settore dell’Istruzione, ed è quasi nullo per la Sanità e i Servizi Sociali. A grandi linee, la dinamica salariale del settore dei servizi pubblici si è perciò riallineata a quella dei servizi privati, come del resto si può ricavare anche dal grafico 1.

Grafico 2: Premio salariale pubblico (salari del settore privato = 100)

Blocco2

Fonte: Istat.


Il blocco, deciso dopo la prima fase d’inerzia seguita alla crisi internazionale, ha permesso ai conti pubblici del nostro paese di non esplodere, grazie anche alle mancate assunzioni, a loro volta rese impossibili per legge. Sebbene il giudizio complessivo degli effetti sia perciò - ovviamente - positivo, si ricordi che non di soli blocchi vive l’uomo, ma anche di relazioni contrattuali che separino vigorosamente gli interessi dello stato tassatore da quello dello stato datore di lavoro.

Ripristinare la buona pratica di fissare un percorso degli aggregati di spesa pubblica riguardanti il monte salari compatibile con un’amministrazione di bilancio oculata, per poi lasciare che siano strutture depoliticizzate a contrattare con le parti sociali un salario adeguato e legato possibilmente alla produttività del lavoro, per quanto difficile sia la sua definizione nel pubblico, parrebbe una strada migliore del gioco dell’oca cui abbiamo assistito nell’ultimo quindicennio.

Il blocco legislativo susseguente all’acquisto indiretto di consenso - perché di questo si è trattato - potrà anche evitarci una crisi finanziaria in un momento di tensione sui mercati, ma non è la pratica migliore per conciliare produttività ed efficienza della nostra pubblica amministrazione con conti pubblici in ordine.