La discussione sull'Italicum è concentrata sull'inestinguibile vizio denunciato dall'opposizione - la cosiddetta "dittatura del premier" e l'eccessiva disproporzionalizzazione del meccanismo di trasformazione dei voti in seggi - e sulla taumaturgica virtù difesa dalla maggioranza - la garanzia di governabilità, legata al tesoretto di seggi aggiuntivi assicurati ope legis al partito vincente.

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Sia il vizio che la virtù sono decisamente ingigantiti dai rispettivi censori e sostenitori. Quanto al vizio, l'Italicum - con la soglia del 40% e il relativo ballottaggio - rimedia al rischio (implicito nel Porcellum, ma per certi versi anche nel Mattarellum, e in qualunque sistema elettorale non puramente proporzionale) che la maggioranza dei seggi venga assegnata a un partito o a una coalizione che abbia "vinto" raccogliendo una minoranza relativamente esigua di voti (alle ultime elezioni, ad esempio, molto meno di un voto su tre). Inoltre, la totale elusione, in sede di riforma costituzionale, di ogni modifica del sistema di governo coerente con la sostanziale presidenzializzazione del sistema elettorale e del gioco politico - anche qui, non da oggi, ma da almeno vent'anni - ha tutt'altro che sabotato il sistema di pesi e contrappesi, in larga misura inefficienti, previsti dalla (si fa per dire) Costituzione più bella del mondo.

Rimane tutto com'è, con un Senato in meno, che però non è un contrappeso, perchè non è un ramo del legislativo a dover contrappesare l'altro, se non nell'idea consensualistico-consociativa che ha accompagnato, pure in piena Guerra Fredda, il funzionamento delle nostre istituzioni. Anche il problema non banale della possibile "appropriazione" del Quirinale da parte del solo partito di governo è un problema che tecnicamente sussiste dal 1994, non dall'altro ieri con il voto definitivo della Camera sull'Italicum.

Quanto alla virtù, anche in questo caso si parla di novità che non sono tali e sono vecchie di almeno un ventennio. Dispositivi elettorali premiali e bipolarismi giuridicamente "coatti" sono entrati nell'ordinamento italiano dall'inizio degli anni '90, prima per gli enti locali, poi per il parlamento nazionale e le regioni. Ad avere in qualche caso impedito al vincitore di ottenere la maggioranza in entrambe le camere non è stata la natura dei sistemi elettorali, ma il sistema bicamerale e la previsione dell'elezione del Senato su base regionale e con un corpo elettorale diverso da quello della Camera. Rispetto al premio di maggioranza o, come usa stucchevolmente dire oggi, rispetto all'esigenza di "conoscere la sera del voto il nome del vincitore", l'Italicum è il gemello perfetto del Porcellum e parente stretto del Mattarellum.

Gli aspetti più rilevanti e problematici della nuova legge elettorale non riguardano però, in astratto, i suoi meccanismi formali, ma, in termini assai più concreti, la dubbia sostenibilità di una dialettica teoricamente bipartitica da parte di un sistema politico che non è affatto bipartitico, nè sembra minimamente sulla strada di diventarlo. Peraltro, anche sull'idea che le leggi elettorali possano "fare" i sistemi politici e i partiti a loro immagine e somiglianza sono vent'anni che coltiviamo speranze deluse.

A ciò si aggiunge il fatto che il presumibile vincitore designato delle prossime elezioni, il PD, non è più un partito, ma un sistema politico a sè (con le sue maggioranze e le sue opposizioni) o, per meglio dire, un sistema politico a parte del rimanente, che non prevede vere alternative di governo al PD, ma diverse varianti di una medesima opposizione "costituzionalmente" anti-governo, in tutte le sue dimensioni politiche e istituzionali. Che sulle spalle del solo PD (di questo PD) possa stare il peso del governo e di tutta la necessaria stabilità del sistema c'è, come minimo, da dubitare, considerando che la sua forza è esclusivamente legata al consenso volubile e volatile per l'ennesimo homo novus della politica italiana incoronato Salvatore.

Ma c'è un punto dell'Italicum che ne contraddice filosofia e ambizioni: è l'introduzione del voto di preferenza per l'elezione dei candidati di collegio successivi al capolista, che avrà effetti solo nel partito vincente - cioè, nell'ipotesi più probabile, il PD ­- e in nessun altro. Renzi si è sempre dichiarato favorevole alle preferenze e disponibile a rinunciarvi solo per tener dentro Forza Italia nella partita delle riforme.

Nel passaggio della riforma al Senato ha quindi accontentato la sua minoranza, esentando il partito di Berlusconi dal peso dell'innovazione. Così, chi voleva le preferenze le ha avute in misura abbondante - 240 eletti circa sui 340 totali del partito vincente - chi non le voleva ne è stato affrancato. Deve essere sembrato a Renzi un modo salomonico per quadrare il cerchio, non sfidando il Cav. su un punto inderogabile, ma privando la propria opposizione interna di un argomento polemico particolarmente popolare.

Il risultato non è stato, nei fatti, così positivo. La polemica stucchevole contro i "nominati" ha continuato a dominare la discussione pubblica sulla legge elettorale, ma soprattutto il voto di preferenza sotto il capolista ha offerto un'arma letale nelle mani delle opposizioni interne del PD, incapaci di sfidare il segretario sul piano generale, ma ancora ampiamente in grado, raschiando il fondo del barile dello storico insediamento locale, di conquistare un'ampia percentuale della futura compagine parlamentare democratica.
Le preferenze sono il meccanismo che può dare a una minoranza troppo debole per fare una scissione la forza di tentare e di riuscire una vera e propria scalata al controllo della futura maggioranza, o di fare del futuro gruppo PD un Libano di fazioni in guerra permanente, ognuna forte di una legittimazione forte e "diretta" da parte dell'elettorato. Così il PD non avrà più i suoi Cuperlo, ma inizierà ad avere i suoi Fitto.

Ovviamente, nel clima che ha accompagnato la discussione dell'Italicum era difficile dire male delle preferenze per quello che sono, cioè un formidabile incentivo alla "democrazia di scambio", e quindi al particolarismo e al malaffare, oltre che un istituto di fatto sconosciuto in tutte le grandi democrazie del mondo. Era oggettivamente difficile resistere alla vulgata, che ne reclamava la restituzione come di un diritto usurpato. Ma cedervi così non rimarrà senza conseguenze, innanzitutto per il PD.