Enrico Letta è stato un enfant prodige della politica, di cui ha scalato il cursus honorum con impressionante e meritata rapidità. Ministro a poco più di trent'anni, capo del governo a quarantacinque, con uno standing e un carisma da "secondo" di qualità, cioè di persona preparatissima e affidabile, capace, più che di prendere i voti, di farli fruttare – pochi o tanti che fossero – con una strategia di investimento intelligente.

Enrico Letta big

Nell'Ulivo, nell'Unione e poi nel PD è sempre stato un imprescindibile, senza essere mai stato in senso stretto un potente. Alle primarie del 2007 – quando lanciò la sua "sfida dei quarantenni" – superò di poco il 10%. Nell'Italia affascinata dagli stereotipi negativi sulla Casta, è stato un modello positivo di professionismo politico. Ottimi studi, eccellente preparazione, grande capacità di lavoro, indiscutibile moralità: tutto al servizio di un mestiere sputtanatissimo, che i meccanismi di selezione avversa impliciti nello storytelling antipolitico – se è tutto un magna magna, allora largo ai forchettoni – hanno reso vieppiù infrequentabile a chi tenga alla propria reputazione, degradando la qualità (anche estetica) della classe politica.

Ieri, dopo più di un anno di limbo e di pensieri di rivincita per l'offesa subita, Letta è tornato alla ribalta ed ha scelto di farlo nel modo più efficiente, ma anche più banale, cioè annunciando le proprie dimissioni da parlamentare e, immancabile, la rinuncia al vitalizio, cioè la propria dissociazione, anche materiale, dalla politica come riconquistata posizione di legittimità (e di superiorità) per l'impegno politico pubblico. In Italia, per fare politica, non devi essere un politico.

L'alternativa al rottamatore, insomma, riparte dall'autorottamazione, dall'abbandono del seggio e dal ritorno al lavoro e al guadagno privato – come se potesse, peraltro, esistere anche un solo centimetro di privato nella vita professionale di Letta, che non poggi sul capitale di competenze e relazioni accumulate nell'esercizio del potere pubblico.

Letta che si dimette da parlamentare per tornare a fare politica rilancia certamente la sua sfida a Renzi, ma segna anche la definitiva resa al senso comune renziano, che proprio il suo successore aveva scelto di utilizzare in modo propagandisticamente scientifico nel suo assalto al cielo della segretaria del PD e di Palazzo Chigi, in cui è entrato felicemente da non parlamentare, conservando l'allure del tagliatore di teste e di scranni costosi e dell'inflessibile "dietologo" delle istituzioni.

Letta che, uscendone, ridiscende in campo formalmente costituisce un fattore di movimento all'interno del PD e una minaccia forse più concreta di quella delle varie opposizioni interne, tutte debolissime e bollate dal marchio di apparatchick. Ma non porta nessun segnale di novità, né di freschezza, consolidando invece un conformismo antipolitico che ormai costituisce una sorta di sindrome autoimmune della democrazia italiana.

Quando si tirerà il bilancio di questo ventennio di impazzimento post-democratico e di mitologie sul possibile autogoverno della cosiddetta società civile, bisognerà fare bene i conti su quanto i "ladri" abbiano rubato alla credibilità dell'impegno pubblico nelle istituzioni e nei partiti e quanto non sia invece stato il racconto della politica (e dei suoi necessari apparati) come sovrastruttura parassitaria e rinunciabile della vita civile ad averne fatto irrimediabilmente una cosa da ladri, intenzionati a spartirsene le spoglie – metti in tasca e fatti li cazzi tua – o da autoproclamate guardie del buoncostume politico, interessate a lucrare sull'immoralità altrui, come se la politica, in sé, non avesse un perimetro altro da quello dei suoi costi, degli stipendi e dei vitalizi, dei portaborse e delle diarie parlamentari e del numero di seggi da riempire e remunerare.

@carmelopalma