Il pluralismo TV come l'art. 18? Si può descrivere lo scontro sulla Rai come quello sul Jobs Act - da una parte i conservatori, interessati a difendere per ragioni ideologiche o parassitarie la non negoziabilità dell'assetto oligopolistico del mercato TV; dall'altra i riformatori, intenzionati ad aggredire i capisaldi giuridici e simbolici della "democrazia televisiva", per smascherarne e correggerne le rendite e le inefficienze e liberare il potenziale di crescita culturale e civile imprigionato nel compromesso storico tra Rai e Mediaset?

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Se le linee della riforma sono quelle annunciate negli scorsi giorni dal premier e dal ministro Boschi e sono dunque limitate al cambiamento della struttura societaria e della governance della Rai (e dunque dei criteri di nomina del nuovo Cda), il paragone con il Jobs Act suona decisamente esagerato e immeritato. Lo scontro sulla legge Gasparri - malgrado il clamore delle armi - sembra consumarsi interamente "a valle" dei capisaldi del sistema e fondarsi, anche da parte governativa, sull'equivoco che la politicizzazione della Rai dipenda dalla sua berlusconizzazione.

La legge Gasparri è la forma dell'appeasement tra Berlusconi e i suoi nemici, scritta di suo pugno dal Cav., ma negoziata con il duplice fine di aggiornare le regole della lottizzazione al quadro politico secondo-repubblicano e consolidare l'equilibrio duopolistico della TV generalista. Da questo punto di vista si può dire che la legge Gasparri non ha politicizzato la Rai (che ha sempre editori politici di riferimento), ma ha politicizzato il funzionamento del mercato televisivo e la ripartizione degli introiti pubblicitari.

La pietra angolare della Gasparri non è nel meccanismo di nomina del Cda, del presidente e del direttore generale (non così diversi da quelli precedenti e comunque impliciti nella logica del "controllo parlamentare" del pluralismo TV ) ma nella - chiamiamola così - fiscalizzazione della rendita di Mediaset.

Infatti il tetto alla raccolta pubblicitaria per la Rai introdotto dalla legge Gasparri comporta come effetto che, anche con ascolti inferiori, le TV berlusconiane abbiano introiti pubblicitari pari a tre volte quelli della Rai (1,7 miliardi, contro 630 milioni - dato 2013)  e incassino oltre un miliardo in più di quanto in teoria potrebbero, se ascolti e investimenti pubblicitari tornassero a riallinearsi. D'altra parte la Rai può dirsi contenta dell'apparente sacrificio, perché il suo mancato guadagno è ampiamente compensato da un canone di 1,7 miliardi (dato 2013).

Questo patto è il vero fondamento della "costituzione reale" del nostro sistema televisivo. Attorno a questo centro ruotano gli altri elementi costitutivi del suo funzionamento, a partire da un concetto arcaico e pre-tecnologico del servizio pubblico di informazione e dei relativi oneri, e dal feticcio del pluralismo informativo non come prodotto della concorrenza esterna tra diversi operatori, ma dalla "pluralizzazione" (cioè dalla lottizzazione) dell'operatore pubblico.

Se davvero si vuole mettere mano al dossier Rai, varrebbe la pena di fare una riforma davvero radicale, non solo cambiare il modo in cui i politici nominano, direttamente o indirettamente, gli amministratori di Viale Mazzini, inseguendo il miraggio del modello BBC.