Silvia, 37 anni, buona laurea, pubblicitaria, anni di esperienza in agenzia e da freelance, vale attualmente meno di un euro l'ora. Da qualche mese fa la cameriera nel ristorante di un hotel, 20 euro a servizio dove 'servizio' può voler dire anche turni di 21 ore consecutive con 50 minuti di pausa, ovviamente a nero. "Il problema è l'incertezza. Ma finché ci sono 'i numeri' ci sono anch'io. Se no – scrive – riposo forzato".

Francesca, 30 anni, un lustro pieno di esperienza remunerata nell'editoria online, attualmente fuori quota per eccesso di ribasso: fa la web editor, a zero euro pure lei. Il lavoro è bello, l'impresa nobile e tuttavia zero euro. Osserva: "se non puoi dare un prezzo a quello che sei e che fai non vali niente."
Silvia e Francesca - persone vere, nomi di fantasia - rappresentano una sotto-categoria della più ampia categoria dei disoccupati: i disoccupati che non t'aspetti.

Smettoquandovoglio

Non determinanti a fini statistici, gli ex occupati nei settori intellettuali divenuti disoccupati a seguito della crisi, sebbene non a causa della crisi, sono le vittime paradossali di un difetto di mercato: il mercato del lavoro che in Italia non esiste.

Mercato è uno spazio di scambio domanda/offerta: libero, in chiaro. Questo spazio nel nostro paese, alla categoria cui ci interessiamo qui, è precluso. All'Università, nella formazione, nell'editoria, nei settori creativi non c'è un mercato ma un sistema di affiliazione clanistica, opaco per definizione ed evidentemente inefficiente. Ok, nessun problema: si cambia settore. Si cambia, e come? A trent'anni suonati, se non già a quaranta compiuti, puoi avere accumulato meriti e onori, fatto cose brillanti di cui andare orgoglioso, esserti addirittura sentito 'arrivato' e tuttavia dover prendere atto che tutta quella roba lì non ha più un mercato, o che non lo ha più per te, ed è inutile insistere. Proporsi su un altro mercato, quindi, un mercato vero: entrare in nuovo mercato ma all'età di un semi-senior, e con l'esperienza di uno stagista. Appetibilità pochina, se ne converrà.

Nei paesi europei in cui il mercato del lavoro è aperto, il riassorbimento del disoccupato 'dotato' da un settore produttivo morto ad un settore produttivo vitale è lineare, fisiologico, non traumatico. Certo, non è scontato ricollocarsi nemmeno in Gran Bretagna o Irlanda, ma basti che il reclutamento degli insegnanti, dalle elementari ai college, è aperto a tutti senza vincoli di nazionalità. Non è detto sia facile nemmeno lì, ma ce la si può giocare.

"Smetto quando voglio" è un film italiano, recente. Racconta di un gruppo di ricercatori universitari romani a cui anni di investimento accademico hanno reso nulla. Nulla, dotto'. Trent'anni passati da tempo, e giusto lo sguattero in un ristorante cinese o il benzinaio di notte in una pompa pakistana. Poi l'idea: produrre e commercializzare pasticche da discoteca semi legali, le smart drugs. Il business è floridissimo, la potenzialità di guadagno diventa guadagno vero. Il talento umiliato dall'oligopolismo accademico trova soddisfazione nell'intraprendenza di mercato: il mercato libero, ma illegale, degli stupefacenti.

Il discorso lo possiamo anche chiudere qui e dirci: vendere droga è immorale e illegale. Ma che succede quando 'legale' vuol dire niente? Pure lavorare a nero è illegale, eppure in Italia anche quel mercato è saturo – perché l'unico che sino ad ora abbia dimostrato di funzionare. Il mercato professionale dei ricercatori universitari è un non-mercato. La ragione per cui il talento accademico non è competitivo è perché non è il talento il metro della competizione. Il mercato professionale editoriale o creativo è un sistema misto, mercato-chiuso non-mercato, con più finestre di accesso dell'omologo accademico ma altrettanto indifferente all'investimento selettivo. L'elemento comune ai due settori, presi qui a modello dell'italico spreco di capitale intellettuale, è l'assenza di un mercato professionale.

Ricapitolando: abbiamo una condizione oggettiva di stallo occupazionale, escludiamo dalle cause la scarsa motivazione a ricollocarsi, proviamo a trovare delle vie di uscita.
Il capitale intellettuale infatti ha questo di bello: prescinde dallo 'specialismo' e può quindi essere investito in maniera eclettica. Una persona abituata al pensiero creativo non ha un limite settoriale: così come crea parole per una pubblicità può creare torte o borse di maglia. Se vendere parole non rende, ma vendere torte decorate per le feste dei bambini sì, cominciare a far torte, farsi pubblicità, e guadagnarci può essere un ottimo modo per auto-ricollocarsi. In Italia però una cosa così è materialmente impossibile da fare, legalmente. Permessi e autorizzazioni per avere tutto a norma vuol dire lasciar perdere. Non parliamo di Steve Jobs e start-up, ci siamo intesi, no? Parliamo di auto-ricollocazione necessaria e intelligente.

Dunque se il mercato nel quale sarebbe fisiologico trovare uno spazio in realtà non c'è; se un altro mercato potenziale ci sarebbe pure ma impone costi di accesso così elevati da renderlo nei fatti inaccessibile e non più razionale; se l'unico mercato, il mercato di ultima istanza che non solo c'è ma ha anche costi di accesso sostenibili è il mercato illegale, la soluzione per me è fare in modo che quel mercato illegale non sia più la sola scelta, né di prima né di ultima istanza. Che ci sia cioè un'opzione migliore, e altrettanto friendly, di fare mercato – mercato legittimo, e non moralmente opinabile: torte fatte in casa, imbiancatura free lance, cose così.

Questa opzione migliore significa incoraggiare chi è fuori mercato, ma non per questo privo di talento, a mettere a frutto il proprio talento diversificandone l'applicazione - in maniera spontanea, creativa, non sottomessa alla preventiva ostilità di fisco e burocrazia. Rendere possibile – concretamente possibile – l'opportunità di ri-creare un valore professionale di sé, quando lo si è perduto, senza necessariamente doverci rinunciare perché, per lo Stato, il modo in cui si è immaginato di produrre quel valore non è conforme alle leggi.

@kuliscioff