Ogni salto tecnologico ripropone due questioni gemelle: quali effetti si riflettono sulla qualità del lavoro e quale sarà la quantità di lavoro necessario. Dando per acquisito il cambio di paradigma imposto dall’industria 4.0, resta da stabilire come la digitalizzazione di processi e prodotti trasformerà il lavoratore 4.0.

Magone ingranaggi

“In Germania, in questo momento, il dibattito è tutto incentrato sul lavoro”. Lo ha detto en passant Henning Banthien, segretario generale di Plattform Industrie 4.0, nel suo intervento all’assemblea del Cluster Fabbrica Intelligente lo scorso 4 ottobre a Milano.

Per rispondere in modo ordinato ai deflagranti quesiti che la prospettiva dell’industria 4.0 apre, la piattaforma federale ha coinvolto anche il sindacato; scopo dichiarato, esercitare un’azione preventiva per ordinare le aspettative del mondo del lavoro, posto davanti al maggior cambiamento di assetti (e politiche) industriali osservato da questa generazione. Il messaggio sottende che il lavoro non passerà indenne dalla trasformazione in atto, dunque è più che opportuno prefigurarne l’evoluzione.

Il dibattito sul divenire intelligente della produzione tende a polarizzarsi su due prospettive, quella dei “catastrofisti” e quella degli “innovatori militanti”. Ambedue condividono la convinzione che l’industria 4.0 rappresenti una svolta decisiva per il futuro dell’occupazione, ma le analogie finiscono qui: secondo gli innovatori, “disruption” e “knowledge jobs” saranno la locomotiva che guiderà l’espansione del lavoro; secondo i catastrofisti quella locomotiva rischia di far deragliare ampi strati del mercato che non riusciranno a ricollocarsi.

Nel distretto aerospaziale di Novara, area di Cameri, la metafora stessa del futuro del lavoro è rappresentata da un capannoncino di vetro a due piani. Sopra ci sono gli open space, i monitor e le sale controllo; sotto, una batteria di macchine che somigliano a grossi frigoriferi, sistemate in due stanzoni dove è assente ogni segno della fabbrica novecentesca: rumore, calore, sporcizia, casse, olio. È l’avveniristico scenario proposto dai reparti senza presenza umana dell’impianto realizzato da GE Avio Aero per l’additive manufacturing, dove si produrranno palette per turbine a ciclo continuo, attraverso un processo alternativo (o complementare?) a quello delle due fabbriche per antonomasia: la fonderia e l’officina metalmeccanica.

L’organigramma impiega poche persone, ragazzi con meno di trent’anni, solidi studi alle spalle ed esperienza professionale limitata. La pratica del lavoro consiste nella progettazione di componenti dal design “inconcepibile”, con successiva collocazione in un volume teorico di stampa nel quale avviene l’edificazione degli oggetti. Una squadra di ingegneri e dottori di ricerca interpreta il comportamento fisico-chimico delle polveri, depositate nel campo di stampa e fuse con un fascio laser un millimetro dopo l’altro. In azienda, al vertice della piramide della conoscenza sta una figura professionale che è anche un talento: è l’esperto gestore degli oltre 300 parametri che definiscono la performance delle macchine. Alla parte opposta della gerarchia – ma il ruolo non è meno importante – il perito che fa il set-up, scarica gli oggetti “stampati”, li ripulisce con una sabbiatrice e recupera le polveri che saranno reintrodotte nel ciclo.

Negli ultimi anni, il dibattito su digitalizzazione e lavoro si è incentrato sul fatto che la tecnologia avrebbe inciso prevalentemente sulle occupazioni di medio livello, routinarie e seriali, mentre quasi tutte le occupazioni di alto livello e alcune tra quelle di basso livello sarebbero state meno sostituibili: le prime perché richiederebbero capacità di elaborazione fuori dalla portata delle macchine; le seconde perché esigerebbero flessibilità e manualità che rendono l’uomo preferibile rispetto alla completa automazione. Tuttavia la digitalizzazione ha già modificato campi di attività non seriali un tempo considerati non macchinizzabili, basti pensare al comparto sanitario, dove sta diventando possibile realizzare non solo l’archiviazione più efficace dei dati ma anche le auto-terapie, la medicina a distanza, il tele-monitoraggio.

L’abbassamento dei costi e l’innalzamento delle performance delle tecnologie permettono la sostituzione di una parte non marginale delle occupazioni, anche di livello superiore, alimentando il confronto sull’impatto sociale del cambiamento. Secondo un discusso saggio di Frey e Osborne uscito nel 2013, negli USA sarebbero a rischio 702 tipi di lavoro, compresi profili tecnici e figure professionali superiori. Secondo Brynjolfsson e McAfee (2014) resterebbero al di fuori del potere delle macchine le professioni che richiedono skill emozionali, affettive, relazionali, creative, i processi diagnostici e il problem solving. Insomma, lo stabilimento di Cameri resterà un caso isolato e poco replicabile su larga scala? Ovvero, le imprese industriali continueranno a occupare una quota importante di lavoratori, accanto agli impianti dotati di intelligenza e autonomia? Più in generale, in chi si trasformerà il lavoratore 4.0?

Al di là della fondatezza di questi scenari e della loro concreta applicabilità al mercato del lavoro europeo, l’industria intelligente sta cambiando il mix professionale e il profilo delle figure del lavoro manifatturiero, a partire da quelle più emblematiche: l’operaio e l’ingegnere.

Nel ‘900 la tendenza nelle grandi fabbriche è stata la progressiva banalizzazione del lavoro operaio, ridotto a mansioni ripetitive e di scarsa complessità – anche se non mancarono alternative a questa visione, poiché nella fabbrica “reale” i saperi operai sono da sempre più importanti di quanto non sia consegnato alla memoria. Da tempo, nelle imprese intelligenti, la predisposizione degli ambienti, il design delle postazioni, la definizione dei movimenti prevedono il coinvolgimento degli operatori, perché l’esperienza diretta, la conoscenza dei colli di bottiglia costituisce un sapere da codificare e incorporare nella progettazione dei processi.

Una delle sfide delle organizzazioni intelligenti è la gestione della variabilità del ciclo, poiché la personalizzazione implica variabilità, ma anche incertezza. La discontinuità del flusso presuppone che gli operatori non agiscano come sorveglianti delle macchine (o applicatori acritici delle procedure), senza conoscere il senso di ciò che accade. Ma per garantire il livello richiesto di interazione col flusso, chi lavora in produzione deve essere più istruito, polivalente, cooperante e comunicativo. È un blue collar aumentato, ovvero dotato di apparati di elaborazione digitale, magari in mobilità, per il monitoraggio di un processo che restituisce in tempo reale i dati relativi al ciclo. Egli non interviene manualmente nel ciclo e non opera con una sola macchina, ma si dedica al controllo di più fasi, più macchinari, frazioni ampie del processo.

Altra questione cruciale è alimentare le funzioni che danno intelligenza alle macchine, compito che spetta all’ingegneria dei processi, al set-up, alle informazioni che istruiscono il ciclo. Si osserva sempre più spesso, nei reparti come negli uffici, la presenza di un ingegnere di nuova concezione che opera in gruppi multidisciplinari, in forte integrazione con i responsabili di funzioni a monte e a valle. Le attività di ingegnerizzazione si strutturano in base a processi collaborativi che ottimizzano i tempi della progettazione spaccando la sequenzialità delle fasi, dal concetto alla produzione. Per questo complesso di ragioni si registra presso diversi management l’orientamento a ringiovanire la compagine dei progettisti, cercando figure meno “conservative”, più aperte al cambiamento.

Tuttavia questo arricchimento può convivere con una parziale dequalificazione: avere una visione più ampia, sapendo fare meno. Il passaggio chiave, non ancora risolto, riguarda la costruzione delle nuove gerarchie, spina dorsale di tutte le organizzazioni intelligenti o meno. La fabbrica intelligente richiede ai lavoratori una mobilitazione “soggettiva” e un’adesione ai valori dell’impresa che prende corpo nella scelta di mettere a disposizione la propria esperienza e sapere biografico, base cognitiva classificabile, riproducibile, incorporabile nei processi. Per condensare in uno slogan: se l’impresa novecentesca chiedeva al lavoratore otto ore del proprio tempo, lasciando fuori dai cancelli i problemi personali, l’impresa 4.0 esige attenzione, contributi, comunicativa, partecipazione e adattamento, condivisione del progetto aziendale.

Lo stimolo a partecipare e a condividere determina la necessità di cercare equilibri inediti fra autonomia e gerarchia, perché stimolare la partecipazione significa essere disposti a coglierne la portata eversiva. Queste riflessioni non implicano che la transizione verso profili di lavoro più gratificanti sia solo una retorica: rispetto al lavoro taylorista – che nel panorama italiano è decisamente un’immagine del passato – la polivalenza, il livello delle competenze, il rapporto con le nuove tecnologie, la ricomposizione delle mansioni segnano il contorno di un lavoro diverso e più desiderabile.

Ogni salto tecnologico ripropone due questioni gemelle: quali effetti si riflettono sulla qualità del lavoro; quale sarà la quantità di lavoro necessario. Dando per acquisito il cambio di paradigma, resta da stabilire come la digitalizzazione possa trasformarsi in un’occasione e non in un costo.