Credi in quello che ti convince di più, indipendentemente dalle prove che possiedi. È il mantra della politica e della comunicazione post-verità, alla quale i social media fanno da cassa di risonanza e della quale siamo tutti un po’ vittime.

Colonna scale

Si scrive e-health, si legge (spesso) bufala medica. Secondo una ricerca del Censis del 2014, infatti, il 41,7% degli italiani si curerebbe seguendo informazioni mediche trovate in rete – circa 1 individuo su 4 – mentre il 55,3% consulterebbe Google per verificare l'esattezza della diagnosi e delle indicazioni farmaceutiche ricevute. Alla faccia della laurea in medicina e senza possedere conoscenze approfondite, competenze di settore, capacità di lettura.

E se Facebook è diventato più credibile dello specialista e online proliferano i post sui fantomatici danni procurati dai vaccini e sulle possibili sostituzioni a base di erbe e omeopatia, una ragione c'è: ognuno possiede la propria interpretazione del mondo. Appresa, scambiata, condivisa e consolidata sui social media.

La verità, insomma, sta maluccio e la sua poca salute ha conseguenze diffuse che spaziano dalla medicina alla politica – chi non ricorda la storia per cui David Cameron avrebbe avuto un rapporto con un animale morto, diffusa senza che gli autori del racconto avessero prove fondate per confermarla? - all'economia. Mancano, o quantomeno vacillano, i soggetti di fiducia, soprattutto mediatici e giornalistici, e ognuno si sente in grado di diventarlo, indipendentemente dalla competenza e dalla fatica che richiede il ruolo.

Lo spiega il Guardian ricordando quello che è avvenuto la mattina dopo la vittoria della Brexit nel Regno Unito: i più accalorati promotori del Leave hanno dovuto spiegare che ecco, insomma, i 350 milioni di sterline da spendere per il glorioso NHS, il servizio sanitario nazionale, in caso di fuga dalla UE in realtà non ci sarebbero stati. E l'immigrazione, ha inoltre dichiarato Daniel Hannan del Conservative Party, in fondo non si sarebbe davvero ridotta. Semplicemente, due dei temi chiave della campagna pro-Brexit circolata sulla stampa e in Rete non erano argomenti fondati.

In sostanza, stavolta, in tema di comunicazione politica, ha avuto ragione Arron Banks, il più prolifico finanziatore dello Ukip e tra i principali sostenitori del Leave, secondo cui i fatti semplicemente non funzionano come argomentazioni politiche. Ecco, quindi, il mantra della politica post-verità: credi in quello che ti convince di più, indipendentemente dalle prove che possiedi. In altre parole, spiega sempre il Guardian, se il 99% degli esperti condivide una stessa opinione, i media raccontano dell'esistenza di due schieramenti opposti. Peccato che nel secondo militi soltanto l'1% di chi davvero ci capisce qualcosa. Ma, anche quando la competenza siede tutta dalla stessa parte, non conta: c'è sempre un avversario pronto a screditarla come motivata dall'interesse, dalla vicinanza all'establishment, dalla continuità con il potere. E nell'immaginario collettivo lo scandalo fa più rumore della sapienza, “gli scienziati di Hitler” sono più affascinanti degli scialbi ricercatori dell’Università.

Il motivo? Lo spiega lo studio della University of Warwick, pubblicato a Febbraio 2016 e intitolato “Analysing How People Orient to and Spread Rumors in Social Media by Looking at Conversational Threads”. Per capire come le bugie circolino tra gli utenti dei social network i ricercatori hanno analizzato 4842 post di Twitter associati a 9 notizie differenti. Hanno così verificato che una voce che si rivela in seguito fondata ha successo e viene condivisa per circa 2 ore, ma una che, al contrario, si dimostra falsa ha una vita in Rete di ben 14 ore. In altre parole: ci vuole più di mezza giornata per sfatare un mito, periodo durante il quale la falsità circola, si insinua, viene scambiata. Tanto che una bufala ottiene molti più retweet di una notizia.

Non solo. I social network funzionerebbero anche come camere dell'eco: è molto più probabile trovare, e quindi condividere, notizie vicine al nostro modo di pensare, indipendentemente dalla loro solidità e relazione con fatti concreti. Lo ha dimostrato Michela del Vicario dell'IMT di Lucca, attraverso l'analisi del comportamento di un gruppo di utenti Facebook per un lasso di tempo di 4 anni. La ricercatrice ha controllato 69 pagine, prese da esempio come hub di informazione: 32 di teorie del complotto, 35 di notizie scientifiche e 2 troll, i quali pubblicano consapevolmente post infondati per semplice divertimento.

Il risultato? Gli individui tendono a scegliere e rilanciare notizie che confermano messaggi che già approvano, mentre rifiutano informazioni contrarie alla propria visione del mondo. In questo modo i social media si trasformano in estese reti di gruppi omogenei e radicalizzati, all'interno dei quali proliferano informazioni infondate, diffidenza e paranoia. Ecco, in sostanza, il fenomeno della polarizzazione collettiva: persone simili si aggregano e sviluppano convinzioni sempre più forti, perché quando sai che qualcuno è d'accordo con te il livello di autostima aumenta. E il bias di conferma – il fenomeno cognitivo per cui viene attribuita maggiore credibilità alle informazioni che confermano il nostro modo di pensare - si mette in moto.

L'idea, quindi, di un Internet aperto e non gerarchico, decentralizzato e fonte di informazione libera e felice si scontra con il ruolo dei social media, costruiti invece per massimizzare il tempo degli utenti sulla home page, trasformata in luogo dove trovare contenuti piacevoli, apprezzabili, in un certo senso calmanti – in grado, cioè, di farci sentire in pace con noi stessi e con le nostre convinzioni. È questo, secondo Danielle Citron del Center for Internet and Society di Stanford, il meccanismo alla base della Information Cascade, la cascata dell'informazione: «Le persone promuovono quello che gli altri pensano – ha scritto – anche se l'informazione è falsa, ingannevole o incompleta, perché credono di aver imparato qualcosa di prezioso». E il ciclo, da utente a utente, si ripete, aumentando sempre di più la visibilità e la circolazione di una notizia.

La verità, quindi, è davvero morta e sepolta? Mito del secolo scorso, da dimenticare? Non esattamente. Esiste, ma non tutti abbiamo la stessa idea di cosa davvero sia, ed il problema, in fondo, è più di natura filosofica che tecnologica. Quando non sussiste accordo su un fatto avvertito da tutti come tale, infatti, si genera il caos delle diverse interpretazioni e comincia la battaglia tra gang delle opposte verità, animate, come ha dimostrato la scienza, più da meccanismi emotivi che dalla razionalità.

Se la conflittualità, però, è connaturata all'esistenza di un oggetto informativo ed è indipendente dal media utilizzato per renderlo noto, il “problema” dei social network è legato alla competenza dei soggetti di fiducia e alle modalità tramite cui essi emergono e si affermano all'interno delle comunità. In Rete ciascuno tende a voler diventare riferimento e specchio del proprio gruppo di appartenenza, assumendosi un ruolo complesso, spesso però senza avere gli strumenti e le conoscenze per svolgerlo. Accade, però, a tutti. Dotti e sciocchi, grillini, piddini, leghisti convinti allo stesso modo.

Insomma, non è la classica storia del webete, per dirla con lo stile di Enrico Mentana. Né si tratta di dare voce agli imbecilli, come invece ha preferito spiegare Umberto Eco. In rete la verità è morta perché anche i soggetti di fiducia non stanno bene. Un problema per i nostri cervelli emotivi, pronti a condividere la paura e la paranoia con facilità. Una possibile soluzione, forse da sola non sufficiente a cambiare le cose, però c'è, e l'ha spiegata Tom Steinberg, fondatore di mySociety, impresa no-profit. L'era della politica post-verità, ha spiegato al Guardian, potrebbe terminare con l'ingegneria dei social network, cambiando cioè gli algoritmi che li governano.

Una possibilità forse remota, ma attuale, cruciale per porre fine alle notizie spazzatura, che sono proprio come il junk food: alla lunga, se le ingurgiti ogni giorno, fanno male.