Dopo la presentazione del rapporto UE sugli squilibri macro-economici del nostro paese, la maggior parte dei media italiani, con la scarsa fantasia che ormai li contraddistingue in tema di politica economica e di Europa, hanno parlato quasi esclusivamente degli aspetti legati alla finanza pubblica, lagnandosi per lo più della pietra tombale che Rehn, con le sue dichiarazioni, ha messo sulla speranza italiana di poter derogare ai vincoli europei e tornare a spendere.

lavoratori - Copia

Poco o niente, invece, si è detto di altri importanti aspetti considerati dal rapporto. Aspetti che meritano altrettanta considerazione, e che, si spera, troveranno nell’agenda del governo Renzi maggiore attenzione di quanta ne hanno ricevuta in TV e sui giornali. A colpire particolarmente l’attenzione è un'analisi sulla struttura delle retribuzioni per classe di età e sul rendimento retributivo dell’investimento in istruzione e formazione, in cui il nostro paese viene confrontato con i partner europei. Il risultato principale di questa analisi è sintetizzato nella seguente figura 1. È un grafico sulla struttura retributiva per classe di età, dove viene posta pari a 100 la retribuzione della classe di età più giovane, e dove per semplicità, si è scelto di limitare il confronto dell’Italia con la sola Germania e l’Area euro.

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In breve, la linea della Germania è concava con una gobba molto pronunciata. Quella dell’Area euro è sempre concava anche se con una gobba un po’ meno pronunciata. Quella dell’Italia è sostanzialmente lineare. Il significato di questi andamenti si può tradurre così: un lavoratore giovane italiano, in rapporto a un suo collega italiano anziano, è retribuito molto meno di quanto accade in Germania. In sostanza il mercato del lavoro italiano, a differenza di quanto avviene in Germania e nel resto dell'Eurozona, non valorizza in modo adeguato i lavoratori più giovani. Il sistema italiano tende a valorizzare l’anzianità di servizio in quanto tale, indipendentemente dalle altre caratteristiche del lavoratore.

Questa non è una novità. Lo sappiamo tutti. Ma sulla gravità delle conseguenze non si riflette mai abbastanza: i lavoratori giovani sono quelli che, per energia vitale, elasticità mentale e formazione, più degli altri detengono le capacità, le competenze e il capitale umano per recepire e gestire l’innovazione. E che quindi, il nostro sistema industriale e dei servizi, anche quelli pubblici, che non valorizza in modo soddisfacente il contributo dei giovani, ha perso ed è destinato a perdere produttività e competitività.

E nemmeno questa è una novità per l’Italia. I dati sulla struttura delle retribuzioni non sono solo l’ennesima conferma della disparità generazionale prodotta da una legislazione del lavoro antiquata, con un sistema di tutele completamente sbilanciato a favore degli insider (i vecchi) e penalizzante per gli outsider (i giovani). Gli stessi dati lasciano intendere che la scarsa produttività del lavoro (l’altra malattia grave del sistema Italia puntualmente rilevata dal rapporto della UE) è anche il risultato di una struttura retributiva che incide negativamente tanto sull’impiego del capitale umano quanto sull’incentivo all’istruzione e alla formazione superiore. È palese, infatti, quanto possa essere attraente e giustificato, per un giovane e bravo laureato italiano, andare a impiegare il proprio capitale di skill e conoscenza all’estero, dove riceve un reddito soddisfacente. È la sola strada percorribile quando lavorare in Italia significa non solo ricevere una paga più bassa, ma soprattutto essere considerato una sorta di ultima ruota del carro (o, nei casi peggiori, una ruota di scorta, ...buono per le fotocopie) da parte di chi ha stipendi più alti e tutele migliori.

Un sistema che ormai, nella sua degenerazione, conferisce importanza solo alla seniority indipendentemente dalle capacità, dal merito o dal capitale umano. Il rapporto della commissione indica nella nostra struttura retributiva uno dei disincentivi più forti all’investimento personale nell’alta formazione, e quindi anche il freno principale al processo di accumulazione del capitale umano con riflessi gravissimi sulla produttività e sulla competitività del sistema paese. In Italia, un uomo che investe tempo e denaro nella formazione universitaria arriva a guadagnare, nell’arco dell’intera carriera lavorativa, mediamente l’8 per cento in più di quanto avrebbe guadagnato senza investirvi. Nella media UE, il rendimento dello stesso investimento è di quasi il 14 per cento. Per le donne la situazione è ancora peggiore. La loro istruzione universitaria rende appena il 7 per cento a fronte del 12 per cento della media UE.

In sintesi, si tratta di numeri e di risultati che hanno implicazioni importanti sul “da farsi”, e dei quali il nuovo governo non può non tenere conto. E a tale proposito vanno fatte alcune considerazioni. Prima di tutto, non servirà stanziare altre risorse pubbliche, anche ingenti, sulla solita cassa integrazione in deroga per tutelare i più vecchi, e su qualche forma di sussidio o salario di ingresso per “accontentare” i giovani, magari solo di qualche euro superiore alla soglia statistica di povertà. E poi, persino un consistente taglio del cuneo fiscale, al di là di un ipotetico sostegno alla domanda interna, poco o nulla può per correggere questo tipo di anomalia. Infine, anche aumentare la spesa pubblica per la formazione e la ricerca, in queste condizioni, finirebbe per produrre ricadute positive molto inferiori al potenziale reale. In fondo, in tale contesto, non è una soluzione nemmeno accanirsi sulla valutazione della qualità della formazione universitaria e della ricerca. Una valutazione fatta con metodi introdotti “ope legis” e che non riscuotono consenso unanime nel mondo scientifico.

Perché il problema non è a monte, non riguarda, o per lo meno non riguarda esclusivamente, la quantità e la qualità della nostra ricerca e dei nostri giovani laureati. Il problema è più a valle, e sta nella incapacità del nostro mercato del lavoro e del nostro sistema produttivo di acquisire e valorizzare l’alta formazione e il capitale umano. Ed è là che si deve andare a incidere. In sintesi, riavviare la crescita in Italia richiede altro che qualche deroga al patto di stabilità per aumentare la spesa pubblica. Il mercato del lavoro, la sua normativa e la sua struttura, si confermano il vero collo di bottiglia dell’economia italiana. E' necessario riformare il sistema della contrattazione collettiva per rendere la struttura retributiva e il costo del lavoro più aderente alle specifiche realtà produttive. La risposta giusta potrebbe essere proprio nel prossimo Jobs Act promesso dal governo Renzi. Speriamo solo che non si tratti del solito pacco, pieno di proclami ma vuoto di interventi.