calenda

«Se avessimo il Tap non dovremmo dichiarare, come invece faremo oggi, lo stato di emergenza gas a causa dell'incidente in Austria». Lo ha detto ieri il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda dopo l’espolosione nell’hub di Baumgarten, snodo fondamentale per la distribuzione di gas verso l’Italia.

Calenda ha mille volte ragione: diversificare le fonti di approvvigionamento energetico è chiave di sviluppo sostenibile e questione prioritaria di sicurezza nazionale. Su questa diversificazione l’Italia è ancora indietro anni luce, dal momento che importa la maggior parte del gas dalla Russia, gas che passa da un’unica porta di accesso, quella appunto di Baumgarten.

Su queste pagine abbiamo parlato spesso della necessità di un mix energetico efficiente e razionale, ma l’impressione è che a dettare l’agenda nazionale dell’energia siano interessi stratificati che sovrappongono la protezione di uno status quo insostenibile (insostenibile tanto in termini economici che ambientali) a un ambientalismo schizofrenico dalle caratteristiche venature NIMBY.

In Italia, lo sappiamo tutti, non è solo difficile completare la Tap per l’opposizione dei comitati NIMBY pugliesi e dei loro rappresentanti istituzionali, a cominciare dal governatore Emiliano. E’ praticamente impossibile moltiplicare i gassificatori e lo stesso vale per i termovalorizzatori e gli impianti di produzione di biometano dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani. Il solare e l’eolico non se la passano meglio, e anche i mini e microimpianti di produzione idroelettrica si scontrano con opposizioni pregiudiziali spesso insormontabili a livello locale. Dell’energia nucleare, poi, non parliamo nemmeno.

Ogni opera che potrebbe contribuire a migliorare e a diversificare il mix energetico di questo paese, e al tempo stesso ridurre la nostra dipendenza da un fornitore che già in occasione della crisi ucraina ha rivelato la sua spregiudicatezza nell’utilizzare il rubinetto del gas come strumento di pressione geopolitica, viene regolarmente ostacolata, compromessa nei tempi di realizzazione e nell’efficienza, spesso non arriva mai a compimento. Il tutto in nome di un egoismo localistico che trova sempre rappresentanza interessata nella politica locale in cerca di compensazioni e facile consenso di breve periodo.

Il disastro di Baumgarten invece ci ricorda ancora una volta che anche i “no” costano, e costano cari. Ma costano a tutti noi, non soltanto a chi dice “no”: alla sindrome NIMBY (not in my backyard - non nel mio cortile) non corrisponde un effetto NIMB (not in my boiler - non nella mia caldaia) che riduca la fornitura di energia o ne aumenti il costo solo nei territori che hanno ostacolato la realizzazione di opere utili per tutti. Dire “no” a tutto non costa nulla, anche se ha delle conseguenze che possono essere catastrofiche.

Nell’Italia soffocata dalla retorica del “bene comune” si è perso completamente il senso della “pubblica utilità”. Invece ostacolare la realizzazione di opere di pubblica utilità, anche quando è comprovata l’assenza di impatto ambientale, è miope e irresponsabile. Sarebbe ora di metterci definitivamente dietro le spalle la stagione dei “no”, a causa della quale l’Italia sta pagando un prezzo enorme in termini di opportunità perse e di mancata crescita.