La nuova tassa sui procuratori sportivi colpisce una categoria "antipatica", in un settore ricco e spesso opaco. Ma nulla giustifica i soprusi del fisco e il calpestamento dei principi costituzionali. Tanto più se l'obiettivo è aiutare il calcio italiano a tornare attraente e competitivo.

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Le regole d’ingaggio piuttosto rilassate che presiedono alla formazione del bilancio dello Stato permettono, anno dopo anno, l’ingresso nella legge di stabilità di un coacervo di misure prive di coerenza e spesso frutto di una riflessione approssimativa. Tra le primizie dell’autunno-inverno 2013-2014, va segnalata una misura alquanto controversa che innova il trattamento fiscale dei compensi degli sportivi.

La norma, partorita dagli onorevoli Castricone e Covello del PD, introduce un meccanismo presuntivo, in virtù del quale le spese sostenute dalle società per l’assistenza dei procuratori nell’ambito delle trattative contrattuali concorrono, nella misura del 15 per cento, alla determinazione del reddito degli atleti professionisti; è concessa la facoltà di scomputare da questa quota quanto versato dall’atleta ai propri agenti per servizi resi nell'ambito dei medesimi negoziati. L'innovazione, subito bollata come un'imposta sui procuratori, investe, invece, gli atleti o – più verosimilmente – le società sportive, che tipicamente liquidano le spettanze dei propri campioni "al netto", così tenendoli indenni dei non improbabili aggravi tributari.

I proponenti della riforma si giustificano dietro al passepartout della politica economica: la lotta all'evasione fiscale. I compensi dei procuratori, si sostiene, sono spesso gonfiati artificialmente perché includono i pagamenti ulteriori che gli agenti s'impegnerebbero a retrocedere ai propri assistiti, con benefici limitati per questi e quelli, ma con un rilevante risparmio d'imposta per i club, che su quelle somme possono calcolare deduzioni ai fini Ires e Irap e compensare l'Iva, e che, soprattutto, per il già ricordato meccanismo della contrattazione al netto, possono offrire maggiori salari agli atleti senza troppo aggravare il proprio debito verso l'erario. Il problema è reale e non sono mancati fenomeni di abuso, come hanno dimostrato le indagini di Napoli e altre procure. Se questo giustifichi una presunzione generalizzata è tutt'altra questione.

È interessante osservare che alla radice della questione si ritrova una distorsione regolamentare: diversamente da quanto previsto da altri ordinamenti sportivi, le norme federali in Italia escludono la possibilità di una doppia rappresentanza. Sebbene spesso gli agenti svolgano un ruolo di mediazione, agevolando la conclusione di un affare a beneficio di entrambe le parti coinvolte, si è previsto che – al fine di scongiurare eventuali conflitti d'interessi – essi possano disporre unicamente del mandato dello sportivo ovvero di quello della società. Ciò implica, da un lato, che per prassi le società assolvano alla totalità delle spese di assistenza; ma, soprattutto, che – ove già il club abbia messo mano al portafogli – l'atleta non possa a propria volta riconoscere all'agente un onorario senza entrare in sostanziale conflitto con le norme sulla doppia rappresentanza. Pertanto, la possibilità di attenuare in tutto o in parte gli effetti della norma, deducendo dalla quota del 15% quanto pagato dallo sportivo, appare più teorica che concreta.

Ma vi è un aspetto ancor più problematico: la norma istituisce una presunzione assoluta, cioè non suscettibile di prova contraria, rispetto al fatto che la quota del 15% del compenso dell’agente sia entrata nella disponibilità dello sportivo. Per chiarire con un esempio, ipotizziamo che la società Pro Patria si assicuri le prestazioni del calciatore Silvio Piola; e remuneri con 100.000 euro l’agente Tizio Caiola per l’assistenza nelle fasi negoziali: 15.000 euro saranno imputati al reddito del giocatore, a prescindere dalla prova che il procuratore gli abbia fatto pervenire tale ammontare (del resto, una prova contraria in senso stretto sarebbe logicamente inconcepibile: non è possibile dimostrare che qualcosa non è avvenuto). Si tratta di un meccanismo assai sospetto sotto il profilo della legittimità costituzionale, perché entra in conflitto con il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53. Inoltre, in assenza di una previsione contraria, la quota del 15% sarebbe soggetta a imposta prima in capo all’agente e poi in capo allo sportivo, determinando un inammissibile fenomeno di doppia imposizione.

Curiosamente, ha visto la luce da pochi giorni la circolare con cui l’Agenzia delle Entrate tenta di mettere ordine nei rapporti tra calcio e fisco; sarebbe stato opportuno affrontare il tema dei compensi ai procuratori in quella sede. In tempi di ristrettezze, la mai sopita tentazione di sacrificare le garanzie a beneficio del gettito trova nuova linfa: compito della buona politica sarebbe respingere simili sotterfugi, anche quando il contribuente si chiami Juve, Milan, Roma o Catania.