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E se una delle determinanti del populismo dilagante - con annesse ondate di protezionismo e complottismo - fosse il pessimismo che ormai pervade la nostra società? 

Come esseri umani, abbiamo una naturale predisposizione a considerare le cose peggiori di quel che sono, banalmente perché conserviamo memoria dei traumi, dei dolori e delle disgrazie in modo più definito e netto rispetto alle tanti, prevalenti situazioni di benessere che viviamo. I mezzi d’informazione – sembra quasi banale evidenziarlo – alimentano questa tendenza, perché diffondono su larga scala le “cattive notizie”, facendo entrare nella nostra quotidianità le disgrazie altrui. E’ inevitabile: sarebbe insensato chiedere ai media di adottare la “par condicio” tra buone e cattive notizie, non fosse altro che ciò che fa notizia è la rottura di un ordine, non l’ordine stesso. “Oggi non c’è stato alcun terremoto”: pensiamo sia possibile che un giornale o un tg titolino così?

Altra tendenza umana è quella di ricordare il passato come migliore del presente. Come potrebbe essere altrimenti, visto che in passato eravamo tutti più giovani? Tutto ciò considerato, è la nostra razionalità umana che dovrebbe liberarci dall’illusione che gli eventi negativi siano più probabili di quel che sono e che il passato fosse più desiderabile del presente. "Razionalità" significa affidarsi alla logica, ai dati e alla scienza e non alla mera esperienza personale e ai “sentito dire”. Se osserviamo il Sole, lo vediamo attraversare la volta celeste da oriente a occidente. E questa non è nemmeno un’esperienza individuale, ma è collettiva, ragion per cui non possiamo nemmeno pensare che la realtà sia banalmente quella determinata dalle opinioni della maggioranza.

Siamo sempre al Mito della caverna di Platone: dobbiamo evitare di scambiare per realtà quella che ne è soltanto una proiezione. La tendenza a sovrastimare la probabilità degli eventi negativi ci induce a travisare il “principio di precauzione”, trasformandolo troppo spesso in un rifiuto della gestione dei rischi: il no-a-tutto e la sindrome nimby sono figli di questo errore.

In un recente libro di un ricercatore del Cato Institute, lo storico svedese Johan Norberg – dal titolo “Progress: Ten Reasons to Look Forward to the Future” – l’autore osserva la storia dell’uomo e scopre che “le cose sono andate sempre meglio” con il passare del tempo, degli anni e dei secoli. Con dovizia di particolari, fatti, aneddoti e statistiche (peraltro sulla falsariga del saggio "Un ottimista razionale" di Matt Ridley), Norberg racconta il “trionfo dell’umanità”, capace di raggiungere oggi livelli di benessere senza precedenti. Le dieci ragioni del libro sono in realtà dieci ambiti – cibo, igiene, aspettativa di vita, povertà, violenza, ambiente, alfabetizzazione, libertà, eguaglianza e condizioni dell’infanzia – per le quali l’autore illustra quanto e come la società di oggi sia incommensurabilmente migliore del passato. Negli ultimi 25 anni, ogni giorno hanno guadagnato accesso all’acqua potabile circa 285mila persone. Nel 1820, il 94 per cento dell’umanità viveva con meno di 2 dollari di oggi: sono diventati il 37 per cento nel 1990 e meno del 10 per cento nel 2015. Nel 1900 solo il 21 per cento degli abitanti del pianeta era capace di leggere, l’anno scorso siamo arrivati all’87 per cento.

Sul piano della sicurezza personale, viviamo in un mondo sempre meno violento, nonostante la percezione diffusa di insicurezza dilagante: il tasso di omicidi è calato nei secoli e anche gli effetti del terrorismo islamista non rivaleggiano con la violenza comune e diffusa del passato.
In poche generazioni, l’Occidente ha permesso alle donne la piena affermazione sociale e ha riconosciuto pieni diritti di cittadinanza agli omosessuali, che solo fino a pochi decenni fa venivano tranquillamente considerati come deviati e degeneri. E il famoso aumento delle diseguaglianze sbandierato da Thomas Picketty? Esso ha poco significato se, come accade, chi è più in basso nella scala dei redditi sta decisamente meglio dei poveri di venti, cinquanta, cento o duecento anni fa.

Cosa determina questo inarrestabile progresso? Il cervello umano, sostiene ancora Norberg, una risorsa che si riproduce continuamente (e con piacere, peraltro). E perché allora stiamo rinunciando a un giudizio razionale sull’umanità e sulle sue capacità, per diventare preda del pessimismo? Perché abbiamo smarrito la fiducia nell’uomo, nell’individuo e nella sua capacità di determinare il futuro. E’ da lì che bisogna ripartire, per contenere e contrastare le paure e le loro proiezioni politiche. Occorre promuovere un nuovo “umanesimo”, con una dimensione positivamente e ottimisticamente razionale e antropocentrica. L'uomo non è un virus per il pianeta: ne è un lievito, capace di combinare gli ingredienti che trova per produrre qualcosa di più grande e complesso. Diamoci fiducia.