La nuova Politica Agricola Comune, ratificata pochi giorni fa a Bruxelles, segna il punto di arrivo di una storia iniziata più di cinquant’anni fa. Una storia fatta di pesanti distorsioni del mercato e paradossali contraddizioni, che neanche oggi sembrano essere risolte.

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“Accolgo con favore il voto di oggi da parte del Parlamento europeo sulla riforma della Politica Agricola Comune. Questo è un giorno importante per gli agricoltori europei, ma anche per tutti i cittadini dell'UE interessati alla qualità del loro cibo e alla sostenibilità dei metodi di produzione agricola”. Con queste parole il commissario europeo all’agricoltura Dacian Ciolos ha accolto il voto del Parlamento Europeo che ha dato, pochi giorni fa, il via libera definitivo alla nuova PAC. Se questo è il punto di arrivo, proviamo a raccontare le cose dal loro punto di partenza, che data ormai più di cinquanta anni or sono.

Per comprendere la Politica Agricola Comune (PAC) è necessario immergersi nel clima dell’Europa del dopoguerra, in un continente nel quale fumavano ancora le macerie del secondo conflitto mondiale e nel quale si respirava, tangibile, il clima di incertezza della guerra fredda. Quando, nel 1957, fu firmato il trattato di Roma che istituiva la Comunità Europea, le truppe alleate avevano lasciato il territorio austriaco da soli due anni. Solo quattro anni dopo il mondo avrebbe sperimentato di nuovo la paura di un conflitto su scala globale, in occasione della crisi dei missili a Cuba. Un mondo e un’Europa, quelli del 1957, in cui l’autosufficienza e la sicurezza alimentare erano una priorità, forse la priorità. Non deve quindi stupire se all’articolo 39 del Trattato di Roma si legge “incrementare la produttività dell'agricoltura” e “garantire la sicurezza degli approvvigionamenti”: produrre di più, molto di più, a qualsiasi costo.

E il costo, in effetti, fu piuttosto alto. Nei decenni successivi alla sua istituzione, le risorse destinate alla PAC furono sempre più elevate, fino ad arrivare, negli anni ’80, a sfiorare l’80% dell’intero bilancio comunitario. E insieme alle risorse impiegate, crescevano le contraddizioni e le distorsioni nel mercato dei generi alimentari e della materie primi agricole. Perché se l’obbiettivo di rendere l’Europa un continente autosufficiente fu raggiunto garantendo un prezzo minimo ai prodotti agricoli, furono proprio i prezzi fuori mercato, uniti al boost di produzione dovuto all’arrivo della meccanizzazione agricola e all’impiego sempre più massiccio di fertilizzanti e agro farmaci di sintesi – la green revolution degli anni ’60 – a far sì che in pochi anni si passasse da un problema al suo esatto contrario: dalla necessità di produrre di più a quella di smaltire le eccedenze.

Via con i sussidi agli esportatori, quindi, sommati agli incentivi alla produzione. E più si produceva più era necessario esportare, e tutto a carico del bilancio comunitario. Fino all’inevitabile redde rationem che arrivò all’inizio degli anni ’90, con la riforma Mc Sharry che cambiò completamente il paradigma: non più incentivi alla produzione, ma semplici sussidi diretti agli agricoltori, insieme all’obbligo di tenere a riposo una porzione della superficie aziendale, il cosiddetto set-aside. Da allora ci furono altre riforme, si istituì il sistema dei cosiddeti “due pilastri” - aiuti diretti da una parte e aiuti allo sviluppo dall’altra – e vennero sempre più incentivate pratiche agricole green, fino alla riforma ratificata il 20 novembre scorso.

La PAC di oggi nasce prima di tutto per trovare una soluzione al problema della distribuzione delle risorse tra gli Stati membri, in una UE allargata. Fette più piccole della stessa torta, quindi, dato che le dimensioni del budget non sono mai state in discussione. Se sulle prime era stata ipotizzata la possibilità di mettere un tetto agli aiuti che ogni agricoltore può percepire, in modo da liberare risorse per i nuovi stati senza caricare troppo la platea dei piccoli agricoltori (che sono tanti e votano), la stesura definitiva sembra essersi limitata ad una riduzione del 5% ai sussidi sopra i 150.000 euro annui. Quando negli Stati Uniti si ricorse a una misura simile, accolta con favore per la sua apparente equità, l’unico risultato tangibile è stato che i grandi beneficiari di sussidi hanno frazionato le loro proprietà, intestandone parte a familiari, prestanome o società di comodo. Ma se fin qui siamo alla semplice ripartizione di rendite o micro-rendite, qualche considerazione va fatta.

Non è la dimensione dell’azienda agricola (gli aiuti diretti vengono attribuiti in base alla superficie) ma la sua destinazione, a rendere il suo titolare un rentier. Un’azienda di grandi dimensioni è più efficiente e capace di stare sul mercato di tante aziende piccole ed eccessivamente parcellizzate. E un’azienda agricola efficiente è in grado di sostenere i costi, e quindi di godere dei vantaggi della differenziazione colturale, rispetto a piccole aziende vocate naturalmente alla monocoltura e alla dipendenza dai sussidi, di produrre di più ottimizzando gli input produttivi e quindi l’impatto ambientale dell’intero processo. Piccolo non sempre è bello, quindi, e per banali ragioni di economie di scala, spesso non è neanche sostenibile.

Poi c’è il greening: il 30% dei pagamenti diretti sarà subordinato al rispetto delle misure di “ambientali” obbligatorie (diversificazione delle colture, conservazione dei pascoli permanenti e la creazione di “aree di interesse ecologico”). L’introduzione di queste misure sarà graduale, e le aziende al di sotto dei dieci ettari ne saranno esentate, ammettendo implicitamente quel che dicevamo prima, cioè che più una azienda è piccola, meno è sostenibile anche dal punto di vista ambientale.

Il mondo non è più quello degli anni ’50, in cui la PAC serviva a soddisfare la domanda interna europea di cibo, né quello degli anni ’90, in cui il problema era quello di smaltire le eccedenze. Il mondo di oggi vede la domanda globale di cibo crescere sempre di più, guidata dalla crescita di colossi come Cina, India, Russia e Brasile: cresce il benessere di miliardi di persone, e migliorano decisamente le loro abitudini alimentari. C’è bisogno di più cibo, e produrne di più è anche il modo migliore di sottrarre le materie prime agricole alla volatilità dei prezzi che ha caratterizzato le ultime campagne agrarie, con i picchi del 2008 e del 2011.

L’Europa, invece sceglie di produrre meno, sottraendo superfici alla produzione: di fatto torna, mascherato da misura green, il vecchio set-aside: soldi per non coltivare. E se questa scelta si propone di ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura, è probabile che mancherà il bersaglio. Ridurre forzatamente la produttività di una unità di superficie avrà un effetto sull’offerta, non certo sulla domanda di cibo. E dato che la domanda resterà invariata, qualcuno si darà da fare per soddisfarla: da qualche altra parte del mondo, quindi, ecosistemi naturali faranno spazio alle coltivazioni, mentre le aziende europee dedicheranno il 3% della loro superficie aziendale alle cosiddette “aree ecologiche”. Non sembra una buona notizia per l’ambiente, quindi, né per la biodiversità. 

Nel 2010 fu una indagine di Eurobarometro a sondare il parere degli europei sulla PAC. Ma se la maggior parte degli stakeholders e dei think tank ammisero che della PAC si potrebbe fare ragionevolmente a meno, diverso fu l’orientamento del grande pubblico. Prezzi abbordabili, poco volatili e trasparenti, uso sostenibile del suolo, sostegno al reddito dei piccoli agricoltori e alla sussistenza delle piccole comunità rurali, protezione dell’ambiente e della biodiversità, contrasto al cambiamento climatico. Sono queste, a grandi linee, le ragioni per le quali i contribuenti europei riterrebbero ancora necessario spendere risorse pubbliche per l’agricoltura. Il risultato di oggi, al di là dei luoghi comuni, sembra tradire le aspettative degli europei, ovvero di coloro che questa politica sono chiamati a pagare.

James Boward, riferendosi ai sussidi agli agricoltori americani, scrisse che “l’effetto principale delle politiche agricole è quello di costringere gli agricoltori a fare in maniera inefficiente ciò che farebbero in maniera più che efficiente senza sovvenzioni, di costringere i consumatori a pagare di più per il cibo, di far salire i prezzi dei terreni agricoli (decimando quindi la competitività degli agricoltori) e di sperperare inutilmente alcune decine di miliardi di dollari l’anno”. Tutto vero, anche se probabilmente la PAC fa anche di peggio.

Albert Dess, l’europarlamentare della CDU che ha steso la bozza il cui testo costituisce il cuore della nuova PAC, è titolare di una fattoria didattica. La sua azienda, nelle campagne bavaresi, non si confronta con il mercato, ma è piuttosto uno strumento divulgativo, una sorta museo a cielo aperto. Se la remunerazione dei cosiddetti “public goods” è diventato il cardine della riforma, se l’erogazione di una sostanziale fetta di sussidi sarà ancor più condizionata all’adozione di pratiche agricole ecosostenibili (ma sarebbe meglio dire “all’antica”, dato che non vi è nulla di sostenibile nell’agricoltura biologica, nell’agricoltura di prossimità, nella salvaguardia di un sistema produttivo inefficiente) non sarà certo la sua attività a risentirne.

Se l’impresa agricola non trova nel mercato la ragione della sua esistenza, ma nella soddisfazione di alcuni requisiti stabiliti a monte dalla burocrazia europea, e in funzione di questi requisiti sarà retribuita, a prescindere dalla sua efficienza, produttività, capacità di innovare e venire incontro alle esigenze dei consumatori, allora questa è la PAC ideale. Diminuiranno i soldi per gli agricoltori italiani, e questo era prevedibile, poiché il budget doveva essere redistribuito tra più stati membri. Ma il vero problema è che a fronte della diminuzione dei sussidi aumenteranno i vincoli, quando la logica vorrebbe  esattamente il contrario: meno soldi, più libertà. E insieme ai vincoli aumenterà, volenti o nolenti, anche la burocrazia.

La PAC conserva (ormai in formalina) lo status quo e guida per mano l’area agricola più produttiva del pianeta, quella con maggiore know how,  fuori dal mercato globale. Proprio mentre l’ONU si prefigge l’obiettivo di sfamare 13 miliardi di persone entro il prossimo mezzo secolo. Ma le rendite sono salve, almeno in parte, così come l’immagine stereotipata di un comparto produttivo tratta direttamente dalle illustrazioni dei libri per bambini. Quegli stessi bambini che sono convinti che il cibo, tutto sommato, cresca nel banco frigo dei supermercati.