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Premessa etico-politica. Quello sulle trivelle non è un referendum popolare. Lo è sotto il profilo costituzionale, certo (l’art. 75 così lo definisce sia che vengano raccolte 500 mila firme sia che venga richiesto da 5 regioni) ma non dal punto di vista politico. Nemmeno un solo cittadino elettore ha apposto la sua firma sotto la richiesta referendaria. In realtà una raccolta firme era stata avviata, ma si è fermata alla cifra di 37 mila (trentasettemila) sottoscrizioni. Sono state 9 assemblee regionali (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) a promuovere il referendum, per ragioni che, svariando da destra a sinistra, da Zaia a Emiliano passando per Toti, convergono su un comune obiettivo politico: indebolire Matteo Renzi, il suo governo e/o la sua segreteria del Pd. Utile ricordarlo, per attenuare eventuali scrupoli di coscienza in caso di scelta astensionista.

Che è la mia scelta, per mille e uno motivi.

Primo, e fondamentale, la sua assoluta irrilevanza. Il sì al referendum avrebbe effetto sui 48 impianti attivi la cui concessione non sarà prolungata fino all’esaurimento dei bacini estrattivi come oggi previsto dalla legge. Finché le concessioni saranno in vigore l’attività estrattiva non verrà però interrotta. Inoltre, vinca il sì o vinca il no, non ci saranno nuove concessioni nell’arco delle 12 miglia perché la legge del 2006 lo vieta, mentre resteranno libere le trivellazioni ed estrazioni da 12 miglia e un pollice più in là.

In termini percentuali si tratta dell’1% del consumo italiano di petrolio e del 3% del gas. Gas? Sì, perché in realtà gli impianti lavorano più sul gas che sul petrolio: 9 impianti estraggono petrolio, 39 gas. Combustibile fossile, certo, ma di meno trista fama, per cui poco se ne parla nella propaganda del sì. La percentuale del petrolio estratto dal mare è per giunta inferiore al 10% di quello cavato dalla terra. Per essere chiari, la vittoria del sì produrrebbe sì qualche problema alla vita delle poche migliaia di lavoratori dell’indotto (ma lo stato sociale farebbe la sua parte), ma nessuno all’economia nazionale.

Questo è un buon motivo per non andare a votare no. D’altra parte è ragione sufficiente per non andare a votare sì. A meno che, certo, le trivelle entro 12 miglia non comportino gravi rischi per la salute e per l’ambiente. Per la salute no, visto che le analisi del mare intorno agli impianti non riportano variazioni significative. Rischi per l’ambiente? Neppure, a meno di non appigliarsi al noto principio di precauzione (se succede un incidente allora..). Principio che però ha una falla più grossa del buco scavato dalle trivelle, dato che andrebbe applicato anche alle navi costrette a trasportare la quantità di petrolio, o gas, richiesta per sostituire quello azzerato dal sì.

In verità l’irrilevanza del quesito è chiara anche ai proponenti. Sentiamo uno dei più battaglieri scienziati “ambientalisti”, il professor Erasmo Venosi: "Il referendum sulle trivelle anche se d’impatto concreto MINIMO perché riguarda unicamente il rinnovo delle concessioni, che scadranno nel 2017 va sostenuto perché una lezione di democrazia e uno schiaffone alla concrezione d’interessi trasversali, che ha in pugno l’Italia davvero ci vuole”. La maiuscola su minimo è (come la punteggiatura) dell’autore che vuole mettere in evidenza il carattere politico-vendicativo del referendum. Altri, più lungimiranti sostengono che serve a rimettere in discussione la politica energetica del nostro paese. Nobile e giusto obiettivo, si dirà. Ma l’uso del referendum come “stimolo” denuncia la matrice benaltrista dello stesso e ci riporta al punto di partenza, vale a dire la deformazione (politica? antipolitica?) di un istituto che dovrebbe rappresentare uno strumento essenziale dell’esercizio della sovranità popolare.

Non in mio nome, però. Voterà sì chi vuol dare un ceffone a Renzi, chi vuole pettinare il mare, chi sogna un mondo benecomunista dove tutto è gratuito e nulla inquina.  Chi invece vuole affossare il quesito avrà difficoltà a convincere diversi milioni di italiani a recarsi alle urne e votare no su un quesito che in nessun caso avrà significative ripercussioni sulla loro esistenza.

La scelta è fra testimoniare il nostro impegno civile lasciando cadere nell’urna un no che però può aiutare i governatori delle Regioni suddette a superare il quorum previsto dalla legge, oppure cercare di far cadere questo referendum e le ambigue ragioni che lo hanno prodotto. Per me vale la seconda che ho detto, e scelgo l’astensione. Aggiungendo però un impegno, anzi due: primo, continuare a lottare per la riforma della legge referendaria in modo da dare valore al voto (cosa che oggi non è); secondo non dire mai, mai, in caso di naufragio del referendum, che ha vinto il no. Giusto per dare una lezione di stile a qualche Pastore errante.