cazzola Copia

Con i dati sul prodotto allineati al quarto trimestre 2015 per tutti i paesi più avanzati, è possibile gettare un po’ di luce sulla dinamica della produttività del lavoro. In anni recenti la scarsa crescita della produttività del lavoro, lontana dai livelli delle decadi precedenti, ha portato molti economisti a pensare che ci troviamo di fronte a una nuova era, frutto sia del rallentamento del progresso tecnico, sia di uno shock demografico avverso in molte economie mature.

Queste preoccupazioni - principalmente supply-side - ben riassunte nel nuovo libro di Robert Gordon, sono accompagnate da altri approcci di analisi basati più sulla domanda aggregata. Studiosi come Summers, o come - in parte Bernanke - puntano il dito contro la mancanza d’investimenti privati, causati secondo loro da un trend mondiale di accumulo di risparmio superiore alle possibilità d’investimento in molte economie avanzate, con ovvie ricadute sui tassi d’interesse, mai così bassi. Identificare con esattezza le vere cause di questo trend si scontra, come spesso accade in macroeconomia, con la difficoltà di individuare controfattuali robusti, se non grazie alla modellistica econometrica, che come tutti dovrebbero sapere è, di certo, internamente coerente, nel senso che dalle ipotesi alla base del modello scaturiscono necessariamente i risultati di analisi, ma le cui ipotesi di lavoro tendono inesorabilmente a semplificare la realtà, bestia che difficilmente si lascia ingabbiare in modelli formali ed eleganti quanto spesso impotenti nel cogliere le vere forze in atto delle economie.

Qualsiasi sia l’approccio analitico, è però incontestabile che la velocità di crociera della produttività del lavoro è ampiamente insoddisfacente, come mostrato dal grafico 1. Il grafico mostra, per gli ultimi due anni, i numeri indice dalla produttività per occupato, ovvero del prodotto reale espresso in rapporto al numero di lavoratori equivalenti a tempo pieno, per i maggiori paesi della zona euro. Gli Stati Uniti sono stati inseriti quale benchmark di riferimento, in modo da poter confrontare facilmente i risultati dei paesi europei rispetto all’economia che, meglio di tutte, è risuscita a risollevarsi dalla grave crisi in cui era caduta nel 2008. I dati provengono da fonti nazionali, e sono stimati per il quarto trimestre 2015, assumendo una dinamica dell’occupazione simile a quella catturata dalle inchieste sulle forze lavoro dei vari paesi, nel periodo considerato.

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Grafico 1 Produttività del lavoro nei maggiori paesi della Zona Euro

È facilissimo notare la vicinanza dei trend di Germania, Francia e Stati Uniti, mentre la Spagna e l’Italia arrancano. Soprattutto quest’ultima, sembra avviata al solito trend negativo, vero marchio di fabbrica degli ultimi 20 anni, che non fa sperare nulla di buono per la crescita futura, nel medio periodo. Poiché il livello del nostro PiL pro-capite, altro indicatore implicito di produttività totale, è del 64% di quello degli Stati Uniti, ci si aspetterebbe una crescita più sostenuta, che permetta, finalmente, di invertire la marcia relativa e guadagnare nei confronti del leader tecnologico globale.

Dai dati recenti non pare che questa sia una possibilità alla portata di mano del nostro paese. Il grafico 2 è abbastanza impietoso, nel mostrare la “mancanza di trazione” del motore economico del Belpaese. Se si dovesse continuare di questo passo, il declino relativo italiano purtroppo sarebbe inarrestabile. Anche ammettendo che i problemi di domanda, uniti agli incentivi alle assunzioni che tendono ad aumentare la domanda di lavoro marginale, con ricadute negative momentanee sulla produttività, abbiano un impatto nel breve termine che faccia discostare le dinamiche italiane da quelle dei suoi partner, non si vede come con produttività stagnante, e non da oggi, possiamo donare preziosa linfa vitale alla nostra economia.

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Grafico 2 Produttività del lavoro in Italia durante il Governo Renzi

Il fatto piuttosto preoccupante è la totale assenza di dibattito sulla questione appena messa in evidenza. Dopo aver votato e implementato, in modo ancora parziale, una buona ma timida riforma del lavoro, la discussione si è impantanata in quella che pare, a chi scrive, una questione di lana caprina: pochi decimi di deficit in più da richiedere alla Commissione UE, in parte come “premio” implicito di tale sforzo riformista titanico. I dati appena mostrati suggeriscono che il Jobs Act da solo non basta a rilanciare la produttività del lavoro, male antico e mai curato. Le discussioni surreali fra sindacati e Confindustria sulla contrattazione si susseguono in modo stanco e prevedibile, tra un indice macro cui collegare la dinamica salariale, proposta di cui non si capisce il senso, e un Governo timido che non ha la forza di tirare le fila della negoziazione verso risultati accettabili, che vedano finalmente la contrattazione a livello d’impresa come nuovo standard.

Purtroppo, l’impressione è quella di un Governo che ha perso smalto riformista, pare quasi incatenato in equilibri subottimali fatti di rivendicazione elettoralistiche, di voci grosse senza alcun risultato tangibile. Disgraziatamente, Renzi sembra voler trasmettere l'idea che la stagione delle riforme in Italia è finita, che tutto ciò che andava fatto è stato fatto, che il futuro radioso dipenderà da un paio di decimi di deficit in più strappati alla tirchia Commissione UE. Ci permettiamo di ricordare che i dati disastrosi sulla dinamica della produttività sono lì a dimostrare che, molto probabilmente, ci toccherà, per l’ennesima volta, un braccio di ferro non tanto con i burocrati di Bruxelles, quanto con la realtà, che vede un’economia italiana con un motore ancora imballato. Gli italiani potranno convincersi che i nemici sono altrove, ma le condizioni economiche, trimestre dopo trimestre, anno dopo anno, continueranno a declinare relativamente ai suoi pari, europei e mondiali. L’inerzia, in un paese che declina strutturalmente da decenni, non è la virtù dei forti, ma un placebo che non permetterà di guarire il grande malato Italia.