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Renato Bialetti è morto, un paio di notti fa, a 93 anni. Alla sua strategia imprenditoriale si deve la diffusione in tutto il mondo della Moka, inventata da suo padre Alfonso nel 1933.

Fra un paio di giorni, invece, sarà trascorso un anno della morte di Michele Ferrero, fondatore della Ferrero: è merito suo se le uova di cioccolato si mangiano ogni giorno e non più solo a Pasqua. E, sempre fra un paio di giorni, gli innamorati di tutta Italia inizieranno i festeggiamenti di San Valentino scambiandosi un Bacio Perugina, la cui invenzione è frutto del lavoro coraggioso e originale di Luisa Spagnoli (la cui storia è stata raccontata in una fiction su Rai 1 qualche settimana fa).

Bialetti, Ferrero e Spagnoli non sono solo alcuni dei grandi imprenditori che hanno contributo a rendere famosa e apprezzata la creatività italiana in tutto il mondo: essi sono dei benefattori dell’umanità intera. Come tutti gli imprenditori, una loro geniale intuizione – unita alla capacità di commercializzarla e venderla – ha migliorato le vite quotidiane di ciascuno di noi in modi talmente incredibili da finire per cambiarle: quale studente universitario in sessione potrebbe rinunciare al gorgoglio della moka durante le sue interminabili giornate di studio? Quale bambino non farebbe gli occhi dolci ai propri genitori per ottenere un ovetto Kinder? Quale coppia di innamorati non sorriderebbe leggendo quelle frasi romantiche che “sembrano-fatte-apposta-per-noi”?

Le storie dietro la genesi delle invenzioni imprenditoriali sono le più disparate e curiose: per restare in tema, Alfonso Bialetti inventò la Moka ispirandosi al funzionamento della lisciveuse (una sorta di lavatrice) della moglie. E come racconta Alberto Mingardi, nel suo "L’intelligenza del denaro", noi oggi non avremmo i Loacker se il signor Alfons Loacker, pasticciere di Bolzano, non fosse stato un grande appassionato di calcio: volendo trascorrere le domeniche pomeriggio in compagnia della sua squadra, infatti, non aveva il tempo di preparare i dolci per il lunedì mattina e così dovette inventarsi qualcosa che rimanesse fresco più a lungo. Di lì l’illuminazione: donare al mondo i wafer, inframmezzando due cialde con uno strato di cioccolato.

E chi avrebbe mai detto che perfino dietro l’invenzione del mocio (il mocio, signori miei!) ci fosse una storia da raccontare? La storia, cioè, di Joy Mangano (interpretata in "Joy", attualmente in programmazione nei cinema, da Jennifer Lawrence), una donna che, dopo aver lasciato il proprio lavoro per badare ai figli, e dovendosi occupare delle pulizie in casa, creò il “Miracle Mop”, un mocio leggero, maneggevole e che poteva essere comodamente strizzato in un apposito secchio. Non è dato sapere quanto Joy Mangano fosse consapevole del fatto che in quel modo avrebbe rivoluzionato il modo di lavare il pavimento: ma certo è che, se la sua invenzione non avesse incontrato le richieste di milioni di casalinghe in tutto il mondo, il “Miracle Mop” sarebbe rimasto un curioso mocio e niente di più.

Questo perché – come spiega Michele Ferrero in una stupenda intervista rilasciata prima della sua morte a Mario Calabresi – il “consumatore” è colui che decide del successo o della fine dell’imprenditore, che "decreta il successo di un’idea e di un prodotto e se un giorno cambia idea e non viene più da te e non ti compra più, allora sei rovinato". E tutto ciò è reso possibile dal sistema economico migliore che l’uomo abbia mai scoperto: il libero mercato, cioè «l’economia della sorpresa».

L’imprenditore è fondamentale in una società che aspiri ad essere libera e prospera: egli non solo migliora la vita dei suoi clienti, ma è l’unico produttore di ricchezza vera e di nuove opportunità di crescita economica e sociale. Da lui dipendono poi i suoi lavoratori e le loro famiglie: e tanto più l’impresa sarà sana e competitiva e tanto più tutti ne trarranno profitto (si pensi ai programmi di welfare “privato” che Leonardo Del Vecchio mette a disposizione dei suoi dipendenti). Gary Cooper, nel film tratto da "La Fontana meravigliosa" di Ayn Rand, tiene, di fronte a una giuria statunitense, uno straordinario elogio della figura e del ruolo sociale dell’imprenditore, che - ammonisce - è molto più di un benefattore: egli è l’unico vero eroe della Storia, è l’erede di quell’uomo che per primo "riuscì a scoprire il segreto del fuoco (…) e con esso liberò dal buio la terra". La narrazione di Ayn Rand è senza dubbio enfatica e a tratti addirittura epica: ma non esagera nel sottolineare quanto siano indispensabili uomini così creativi e così innovativi.

E noi italiani sappiamo bene quanto la nostra economia e la nostra società potrebbero beneficiare dalla rinascita di una sana cultura imprenditoriale. Noi dovremmo, come prima cosa, tornare a raccontare ai nostri ragazzi quanto sia emozionante e importante affrontare l’impresa di “fare Impresa”! Esattamente come è accaduto in Estonia dopo il crollo del blocco sovietico. Mart Laar, che fu a capo del governo post-indipendenza, non si limitò al solito (ed efficace, ça va sans dire) programma di liberalizzazioni, privatizzazioni e moneta stabile per riavviare l’economia: egli si impegnò innanzitutto per creare le condizioni istituzionali in grado di liberare il potenziale imprenditoriale del popolo estone. Come ha raccontato l'Economist in un reportage di un paio di anni fa, nel 1990 in Estonia c’era un’unica linea telefonica in grado di effettuare chiamate verso l’estero ed era in possesso del Ministero degli Esteri: oggi, l’Estonia è leader mondiale dell’industria hi-tech (lì sono stati inventati i codici di Skype, ad esempio). Conclude l'Economist: negli anni ’80 in Estonia gli studenti delle scuole superiori volevano essere rock star, oggi tutti sognano di diventare degli imprenditori.

Se provassimo a chiedere ai ragazzi delle nostre scuole superiori che cosa vogliono essere “da grandi”, temo invece che non tutti (e neanche molti) risponderebbero che sognano di fondare e guidare al successo una propria impresa. Eppure già oggi in Italia ci sono tanti piccoli, medi, giovani e meno giovani imprenditori e imprenditrici che si impegnano e hanno successo: il problema è che rischiano di essere sempre meno, scoraggiati come sono da un sistema istituzionale sempre più “estrattivo” e da un contesto sociale sempre più diffidente.

La diffusione di una nuova e sana cultura di impresa – che si ispiri ai modelli rappresentati da Renato Bialetti, da Michele Ferrero, da Luisa Spagnoli… – passa, infatti, da (almeno) due coordinate fondamentali: un’azione “culturale” e una “politica”. L’azione “culturale” presuppone una riscoperta del fondamentale ruolo “sociale” che l’imprenditore svolge: ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze dobbiamo dire che risparmiare, investire, inventare e creare ricchezza è tra le cose più belle che si possano fare e per cui tutti ti gratificheranno, un giorno. Dobbiamo tornare a “onorare” le persone comuni che rischiano i propri soldi per migliorare la propria vita, quella dei propri lavoratori e quella della propria comunità: così facendo, come insegna Deirdre McCloskey, il nostro unico limite sarà quanto in alto arriveremo a sfiorare il Cielo.

L’azione “politica” è diretta conseguenza di quella “culturale” e le sue parole d’ordine le conosciamo bene: bisogna abbattere la pressione fiscale su chi lavora, sia esso un imprenditore o un operaio; bisogna “liberalizzare” e “privatizzare” la nostra economia, per liberare segmenti di mercato spesso in mano a aziende statali o parastatali assolutamente inefficienti; bisogna riformare la giustizia civile perché torni ad assicurare l’enforcement dei contratti, anziché causare la morte delle aziende per via dei suoi biblici tempi; bisogna agire sul nostro mercato del credito, perché si ri-orienti da una visione “banco-centrica” a una fondata sul ruolo dei mercati finanziari.

Nulla di tutto questo è semplice o sembra possibile nel breve periodo. Ma gli italiani hanno una vocazione “naturale” a fare impresa: restituiamo loro la giusta considerazione sociale e le giuste condizioni istituzionali e il resto verrà da sé. Del resto, come scrisse – insuperato – Luigi Einaudi, gli imprenditori "producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli" e questo perché "è la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno".