Carnevale Maffè

Il nostro paese si è spesso distinto per essere stato (ed essere, ancora troppe volte) la patria di quello che all’estero viene definito “crony capitalism”: il capitalismo di relazione.

Un esempio per tutti: il sistema di gestione e controllo delle tante banche popolari sul territorio nazionale. In mancanza di seri e autorevoli azionisti di riferimento a cui rispondere, queste banche si sono potute permettere una certa “discrezionalità” nel concedere crediti generosi a enti locali e strutture pubbliche, come aziende private di amici degli amici, ai cui stessi vertici sedevano rappresentanti di quell’economia relazionale che proliferava e distorceva pesantemente la competizione e la concorrenza.

È tempo di prendere atto che, se non entra in crisi questo pluridecennale sistema che pone la relazione e il favore come elementi chiave di un Paese in cui giornali, banche, imprese, fondazioni bancarie, partiti politici rispondono a logiche “diversamente di mercato”, a entrare definitivamente in crisi sarà l’Italia stessa.

I numeri della Consob dicono che a fine 2014 l’85% delle società quotate italiane e il 75% della capitalizzazione di Borsa era controllato da una o più persone, mentre le società a vasta diffusione del capitale restavano solo 10, per un 20% della capitalizzazione; lo Stato continuava a controllare direttamente il 35% del totale della capitalizzazione di mercato. Se bisogna sfidare nuovi attori privati a superare il retaggio relazionale del passato, è bene ricordare anche che lo Stato è, ancora oggi, ben lungi dall’essersi ritirato da tutti i settori economici nazionali, ad esempio con le decine di migliaia di partecipate locali, feudi di politici e partiti.

Carlo Alberto Carnevale Maffè (@carloalberto, su Twitter) è Professore di Strategia e Politica Aziendale presso la Università Bocconi e tra le sue aree di interesse e approfondimento ci sono i temi legati alla competitività aziendale – di imprese che operano su mercati nazionali ed internazionali - e all’innovazione. Lo abbiamo intervistato per Strade per capire se, nella sua opinione, l'Italia ha ancora la speranza di uscire dalla crisi svecchiando la propria economia, oppure se il macigno del crony capitalism finirà per schiacciare tutto.

Il modello di capitalismo clientelare italiano che gestisce imprese, seleziona forniture e concede credito sulla base di rapporti intrecciati tra persone, invece che sul merito dei progetti e delle persone stesse, è in riduzione rispetto ai tempi dei nostri padri o no?

Sì, in particolare negli ambiti del credito e della competizione nelle forniture, ma non per meriti propri, quanto per evoluzione della normativa e della tecnologia. Nel primo caso ci ha pensato la regolamentazione finanziaria europea e internazionale a sconvolgere la foresta pietrificata del credito bancario relazionale, imponendo di legare gli impieghi a parametri oggettivi del bilancio d’impresa e rendendo i crediti deteriorati un’area di attenzione critica nel percorso verso l’Unione Bancaria europea. Nel secondo caso, la drastica riduzione delle asimmetrie informative indotta da internet, insieme alla globalizzazione delle catene di sourcing, ha drasticamente ampliato la scelta sul fronte della fornitura, mettendo le consorterie consolidate di fronte alla peggior minaccia possibile per il capitalismo clientelare: un chiaro e comparabile prezzo di mercato dei beni e dei servizi. Per quanto riguarda la gestione delle imprese, invece, il modello di “governance” italiano resiste come un soldato giapponese asserragliato in un’isola dopo la fine della guerra mondiale. I fondatori non mollano, e preferiscono chiudere e andare a fondo con la loro creatura invece di vendere quando c’è ancora tempo e valore residuo, tanto che il processo di consolidamento e aumento delle dimensioni medie d’impresa è tuttora fortemente rallentato. La successione non avviene per passaggio a un modello di azionariato aperto e contendibile ma per linea ereditaria. Qualche volta va bene, e l’azienda impara a sfruttare i non trascurabili vantaggi del capitalismo familiare. Molte volte, invece, la transizione diretta ai figli non funziona. Ma sono pochi gli imprenditori disposti ad ammetterlo con lucidità.

Il tema della riforma delle banche popolari è ricorso molte volte negli ultimi vent’anni. Ogni volta che approdava in Parlamento veniva però archiviato, insabbiato, rimandato. Questa è la volta buona?

Il credito di tipo cooperativo, dalle banche popolari alla galassia delle BCC, ha storicamente rappresentato una leva fondamentale per la transizione al capitalismo finanziario da parte sia del risparmio familiare sia del credito per le piccole e medie imprese, in un’Italia dove le grandi banche sono state per decenni nell’orbita dello Stato. Ma l’evoluzione verso un’economia aperta e sempre più globalizzata, nonché le forti economie di scala che si sviluppano nell’evoluzione tecnologica del banking, non consentono più di considerare il “territorio”, tradizionale riferimento del credito popolare e cooperativo, come il luogo economico ottimale per la concentrazione di raccolta e impieghi. Prima con l’Unione Monetaria, e oggi con l’Unione Bancaria, sono cambiati i parametri strutturali del rapporto tra banca del territorio, da una parte, e famiglie e imprese dall’altra. La riforma delle banche popolari, troppe volte rimandata a livello nazionale, viene ormai imposta di fatto dai nuovi parametri patrimoniali dell’Unione Bancaria e dalle scelte del mercato. Le più grandi banche popolari dovranno completare la transizione a SPA entro il 2016, rendendo finalmente contendibile l’assetto proprietario e quindi la governance, per troppo tempo ingessata tra fondazioni bancarie e interessi sindacali locali. Attendiamo a breve almeno una prima riforma del credito cooperativo, che se sarà troppo tiepida non solo non otterrà il risultato di dare un futuro possibile al ruolo del modello cooperativo, ma al contrario ne accrescerà i rischi di crisi strutturale.

Da esperto di strategie d’impresa, quale deve essere il nuovo modo di fare branding in questi tempi di grandi sfide e trasformazioni e quale invece quello da evitare?

Il branding non è più un organismo geneticamente modificato dal marketing. È un “contratto sociale”, firmato davanti a un consumatore sempre più consapevole, esigente e connesso. Con l’affermarsi dei social media, il brand è diventato contendibile non solo dai concorrenti, ma anche dai clienti finali. Ora rappresenta un asset solo in quanto riconosce l’esistenza di una corrispondente liability implicita in termini di accordo sul livello di servizio con il cliente. Fare branding, oggi è sempre più un processo di trust distribuito, che deve puntare alla costruzione e alla gestione di uno “stato patrimoniale della domanda”.

Perché la sharing economy è una reinterpretazione più avanzata del capitalismo? Davanti alla crescita di un nuovo mercato con una nuova organizzazione cosa dovrebbe fare – e cosa no – il legislatore?

La sharing economy non è buonismo: è una forma di allocazione e utilizzo più efficiente dello stock di capitale e lavoro esistente, che fa leva sui minori costi di coordinamento e di transazione indotti dalle tecnologie. Quindi è una nuova forma di organizzazione di impresa che consente la partecipazione al sistema di scambi di attori tradizionalmente appartenenti al lato della domanda. Per meglio comprenderne il funzionamento, è opportuno interpretarla con modelli di mercato multilaterale invece che con le tradizionali logiche di catena del valore aggiunto costruita unicamente sul lato dell’offerta. È un’occasione per ripensare non solo il mercato dei beni e servizi, ma anche il modello di welfare europeo e occidentale: dal trasporto pubblico all’educazione, dall’assistenza alla certificazione pubblica dei dati. Le blockchains della sharing economy non devono servire a rendere più efficiente la pubblica amministrazione, ma a rendere inutili i processi da essa attualmente svolti, liberando così grandi risorse fiscali. Il legislatore deve rimuovere gli ostacoli al mercato e alla concorrenza e proteggere il consumatore dall’abuso di posizioni dominanti. In gran parte dei casi, tuttavia, non solo è gravemente “catturato” dalle lobby degli incumbent, dalle gilde e dalle consorterie, ma non ha – molto banalmente - nemmeno capito di che cosa si sta parlando. Quindi, se lancia anatemi contro le nuove incertezze e precarizzazioni indotte dalla sharing economy, è soprattutto perché sottraggono alla sua tradizionale sfera d’influenza i processi di scambio politico con i titolari di rendite garantite dallo Stato. Questo strutturale conflitto d’interessi finirà per rallentare l’adozione di modelli di condivisione degli asset, erodendo ulteriormente i già angusti spazi di recupero di produttività.

Accanto a quello già conosciuto, si è affermato un nuovo mercato che incontra il potere dei social network per soddisfare le nuove esigenze dei consumatori: cosa aspettarci nel medio e lungo tempo anche in termini di nuove opportunità di lavoro e forme innovative di imprenditorialità?

Fare impresa da una parte oggi diventa più facile, per la migliore accessibilità (teorica) ai fattori produttivi tradizionali, come lavoro e capitale. Il lavoro è meglio profilato e più qualificato. Il capitale, se lo misuriamo per liquidità disponibile e per tasso d’interesse, non è mai stato così abbondante, sulla carta. Le reti sociali stanno fortemente influenzando la nuova imprenditorialità, sia per l’allocazione del lavoro (si pensi a LinkedIn ma anche ai modelli di crowdsourcing di task standardizzati o di progetti specifici, da Mechanical Turk a Innocentive), sia per l’allocazione del capitale (con l’accesso al crowdfunding su piattaforme come Kickstarter). A essere sempre più scarse, invece, sono le facili opportunità di profitto, specie quelle basate sullo sfruttamento di inefficienze locali. La parte “tradable” dell’economia è esposta a un livello di concorrenza crescente, determinato dalla globalizzazione e acuito dalla drastica riduzione delle asimmetrie informative portata da Internet. La parte “non tradable”, che pure nell’economia italiana è ancora preponderante, è invece il rifugio delle corporazioni e delle rendite di posizione garantite dalla politica. Lì si fanno ancora profitti, ma sono riservati agli incumbent. Eppure sarebbe proprio quello dei “non tradables” il migliore terreno per attirare nuova imprenditorialità: toccherebbe alla politica renderlo contendibile, invece di difenderlo collusivamente.

In Italia tassiamo il lavoro e il rischio d’impresa più di qualsiasi altro Paese al mondo, ma sulle tasse di successione pare abbiamo un primato opposto. Come l’FMI, anche Lei crede sia urgente un intervento?

È urgente un intervento sul ridisegno del patto fiscale, che in Italia è tra i più distorsivi al mondo, sia tra i diversi soggetti, sia in termini intergenerazionali. Uno stato che droga fiscalmente gli interessi del debito pubblico – e quelli del risparmio postale – drenando flussi di capitale all’economia di mercato è già di per sé un cinico baro. Se poi aggiungiamo la clamorosa ingiustizia intergenerazionale, sia sulla previdenza sia su welfare e tutele di disoccupazione, otteniamo un sistema fiscale talmente vessatorio e arbitrario da costituire uno dei maggiori disincentivi all’investimento e alla crescita. Le tasse non vanno solo ridotte, vanno soprattutto ridisegnate radicalmente. L’imposta di successione è uno degli elementi di questo indispensabile ridisegno. In un Paese che ha due terzi della ricchezza nelle mani degli ultrasessantenni, con redditi da pensione – anzi, intoccabili “diritti acquisiti”, nella dizione della giurisprudenza costituzionale - ampiamente garantiti da gravose tasse sul reddito pagate dalle generazioni più giovani, è legittimo chiedere un riequilibrio. La tassazione sui redditi di chi rischia e ha merito non può continuare a essere di un ordine di grandezza superiore a quella riconosciuta a chi ha la semplice e immeritata fortuna di ereditare. Il che non significa portare la seconda ai livelli della prima, ma al contrario riequilibrare entrambe su un livello di fiscalità minore in senso assoluto, ma soprattutto più efficiente e incentivante. Oggi, il fisco è un gigantesco Crono che divora i suoi figli. Quando, tra curva demografica ed emigrazione, avrà sterminato fiscalmente le nuove generazioni, sfogherà la sua fame con i patrimoni. Ma sarà troppo tardi.

In Italia la scuola ha perso il carattere segnaletico dell’eccellenza. Iniziando a promuovere tutti, il risultato è che la scuola e l’università perdono il carattere selettivo e del merito. Come invertire la rotta che condanna future generazioni all’impreparazione?

Il modello scolastico ottocentesco che prevede la segregazione obbligatoria delle giovani generazioni per almeno tre o quattro lustri, isolandole dal mondo del lavoro e dal confronto con il mercato, per poi azzerare ogni forma di aggiornamento tecnico o professionale fino all’età della pensione, è da rivedere profondamente. L’istruzione universale è un caposaldo della teoria liberale dello Stato in quanto garante delle pari opportunità di partenza. Dobbiamo avere il coraggio di estendere questo principio all’educazione permanente. I costi di erogazione della formazione e della verifica dell’apprendimento per adulti sono crollati grazie alle nuove tecnologie. Le imprese vanno coinvolte strutturalmente nei processi di istruzione e formazione: poiché beneficiano delle esternalità dell’istruzione pubblica universale, è legittimo che restituiscano il favore aprendosi ai processi di aggiornamento e consolidamento, specie delle competenze operative, complementari ai modelli teorici proposti nelle sedi educative tradizionali. Quanto all’eccellenza per l’istruzione superiore e per la ricerca universitaria, la risposta è sempre la stessa: più competizione basata sul merito e sul mercato. Lo Stato, se e quando ha le risorse, paghi per gli output, non per gli input. Ma bisogna dare un messaggio chiaro ai giovani: imparate a lavorare subito, e a non smettete mai di studiare.

@antonluca_cuoco