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Su quale binario viaggiano le FS in vista della quotazione in borsa? Al momento non si sa, dato che non è stato definito né dal consiglio di amministrazione che si è dimesso la scorsa settimana né dal suo azionista pubblico, il governo, al quale tale scelta in realtà compete.

La quotazione - chiamata “privatizzazione” impropriamente, dato che non è prevista alcuna rinuncia al controllo pubblico della gestione - appare in conseguenza viaggiare su un sentiero molto stretto, e la sua realizzazione entro il 2016, promessa all’Unione Europea per ragioni di finanza pubblica, tutt’altro che certa.

Il principale ostacolo al quale va incontro il progetto è il modello di quotazione che si è sinora perseguito, identico a quello adottato nel caso delle Poste: quotare l’azienda, nel caso specifico la holding FSI, così com’è, senza la definizione di alcun processo di riorganizzazione, di riforma dei rapporti finanziari col settore pubblico, di revisione del perimetro aziendale. È il discutibile modello “freezer”, che nel caso delle Poste è stato possibile adottare grazie alla loro redditività complessiva, ma che non è invece possibile ripetere nel caso delle FS a causa delle problematiche specifiche relative alla rete ferroviaria che ne impediscono il mantenimento nel perimetro aziendale destinato alla quotazione.

La rete non è remunerabile in base alle norme europee
Le reti ferroviarie richiedono in tutti i paesi consistenti investimenti a carico della finanza pubblica così come rilevanti contributi pubblici ai costi annui di esercizio. Infatti solo in casi molto particolari e limitati i canoni pagati dalle imprese di trasporto ferroviario che utilizzano le reti sono sufficienti a coprire i costi del gestore.

Qualora si verifichi tale condizione è evidente che l’investimento infrastrutturale può essere sostenuto da capitali privati i quali possono e debbono essere remunerati. In tutti gli altri casi invece il sostegno pubblico è considerato aiuto di Stato e soggetto alle norme europee le quali lo autorizzano, a differenza di tutti gli altri settori economici, senza istruttorie specifiche e autorizzazioni preventive ma solo a condizione che vada a vantaggio degli utilizzatori delle reti sotto forma di pedaggi più bassi. Gli aiuti pubblici alle reti in sostanza sono ammessi e persino auspicati ma solo a condizione che si trasformino in minori canoni per l’utilizzo delle medesime e certo non in dividendi per gli azionisti. Aiuti di Stato liberamente concedibili dai governi e profitti distribuibili non possono convivere in un medesimo gestore: i secondi escludono i primi e viceversa.

Gli investimenti pubblici sulla rete sono aiuti di Stato non remunerabili
Anche ammesso che gli investimenti sull’infrastruttura a carico della finanza pubblica possano essere remunerati, occorre domandarci quali di essi siano considerabili capitale proprio investito, condizione indispensabile per la loro remunerabilità. È fuor di dubbio che gli investimenti finanziati con contributi pubblici in conto capitale non rappresentano capitale investito, tanto che essi non sono neppure valorizzati nell’attivo dello stato patrimoniale dei gestori di rete.

Tuttavia, una forma di finanziamento spesso utilizzata in passato nel caso italiano è stata quella del conferimento di capitale sociale all’azienda ferroviaria. Si tratta in tal caso di capitale investito? Al quesito ha risposto in maniera negativa nel 2005 l’Eurostat, l’Istituto statistico dell’Unione Europea, che ha ritenuto di rivedere a ritroso i bilanci del gruppo Ferrovie dello Stato, giungendo alla conclusione che gli aumenti di capitale erogati negli anni precedenti dallo Stato non fossero funzionali alla realizzazione di investimenti infrastrutturali in un’ottica di mercato e di redditività, dunque classificabili come capitale di rischio con prospettive di rendimento da parte dell’investitore, bensì, in assenza di prospettive di redditività, fossero da considerarsi a tutti gli effetti aiuti di Stato, assimilabili ai fini della contabilità pubblica alle altre tipologie di sostegno pubblico, tra cui i contributi in conto impianti.

Per effetto di tale decisione i conferimenti di capitale effettuati dallo Stato a favore del gruppo FS sono stati riclassificati come trasferimenti in conto capitale e dunque come spesa pubblica dell'Italia a tutti gli effetti, con conseguente rettifica in aumento del nostro disavanzo pubblico. È evidente che i conferimenti in oggetto non possono neppure rappresentare capitale investito in sede di privatizzazione ed essere inclusi nel valore di un corpo aziendale oggetto di quotazione in borsa.

Il peso della rete zavorra la redditività del gruppo
Ammettiamo pure, in contrasto con le norme europee, che le reti ferroviarie siano remunerabili, e ammettiamo pure, contrariamente a quanto accertato da Eurostat, che l’intero valore patrimoniale netto di RFI sia considerabile capitale proprio investito in un’ottica di mercato e redditività. Cosa succede se lo includiamo nel perimetro oggetto di quotazione e relativa cessione sino al 40%? Succede semplicemente che l’elevato valore contabile della rete zavorra la redditività dell’intero gruppo, rendendolo non privatizzabile a causa del basso rendimento atteso.

Bastano pochi numeri per dimostrarlo: nel 2014 il gestore della rete RFI (Rete Ferroviaria Italiana) aveva un capitale investito netto pari a 33 miliardi e mezzi propri per un ammontare equivalente, mentre la gestione ha ottenuto un risultato operativo di 350 milioni e netto di 140 milioni. Il ROI, rapporto tra risultato operativo e capitale investito netto, è stato pari in conseguenza all’1,1%, mentre il ROE, rapporto tra risultato netto e mezzi propri, allo 0,4%. È evidente che con tali parametri di redditività non è ipotizzabile vi siano sottoscrittori interessati all’acquisto, e se si insiste a lasciare la rete nel perimetro aziendale che si vuole portare alla quotazione, dato che essa pesa per oltre i tre quarti del capitale investito totale, si finirà per non trovare acquirenti neppure per l’insieme.

In sintesi, da qualunque lato si voglia affrontare il problema, la rete non risulta proprio privatizzabile e il dilemma se privatizzare anche la rete oppure solo i treni non si è in realtà mai posto su un piano di effettiva fattibilità.