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Quando si cerca di analizzare lo stato delle università italiane e la loro capacità di formare laureati con competenze solide nel mercato del lavoro professionale moderno, non bisognerebbe mai abbandonare la buona abitudine di conoscere le metriche e gli indicatori necessari per isolare l’effetto della qualità dell’insegnamento, che dipende, in ultima istanza, da variabili come l’organizzazione degli atenei, la qualità del corso di laurea, la qualità del corpo docente, da altri fattori confondenti - come ad esempio le capacità degli studenti - che rendono l’analisi più complicata.

Per arricchire l’analisi è necessario, perciò, utilizzare dati disaggregati, almeno a livello di ateneo e corso di laurea, in modo da poter avere una chiara idea dei fattori più importanti e dei corretti indicatori statistici relativi al successo sul mercato del lavoro: il tasso di occupazione, il livello salariale, l’industria di appartenenza, la tipologia d’impresa e di contratto e via discorrendo. Il consorzio Alma Laurea, che raggruppa 72 atenei italiani, rappresentanti oltre il 90% degli studenti universitari italiani, raccoglie tutte queste informazioni in modo sistematico e ha costruito un database utilissimo per la ricerca e per le proposte di politica economica in campo universitario. Vi è da dire che molte famose università private solitamente altamente riconosciute non sono presenti nel Consorzio, quindi i dati presentati soffrono della mancanza della coda probabilmente migliore, in termini d’indicatori di performance.

Con questo caveat bene in mente il primo grafico mostra la distribuzione dei tassi di occupazione e disoccupazione, aggregati a livello di ateneo di origine, assieme ai salari medi mensili lordi, disaggregati per genere, dei giovani laureati di primo ciclo, un anno dopo aver conseguito il titolo di studio. Ogni punto nel grafico rappresenta la media dell’indicatore per ateneo di origine. È facile notare come la dispersione dei risultati in termine di tasso di occupazione sia piuttosto marcata, con tassi che variano da un minimo di 30% a un massimo di 80%. Ovviamente, tale dispersione dipende dalle condizioni economiche locali, primo bacino di lavoro per i laureati, che sebbene tendano sempre più a spostarsi rispetto al passato, nonostante tutto in una realtà come quella italiana ancora oggi preferiscono, in prima battuta, offerte di lavoro non distanti dalla città di studio.

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Grafico 1: Indicatori di performance sul mercato del lavoro dei laureati di primo livello, aggregati a livello di ateneo, 2014

Per cercare di corroborare tale tesi gli atenei meridionali, di solito collocati in aree ad alta disoccupazione, sono stati segnalati in rosso. Essi si pongono nella parte bassa della distribuzione in termini di occupazione e disoccupazione, con punte di tassi vicini al 50%! È naturale che una volta tenute in considerazione le condizioni economiche e di domanda locali, molti dei risultati negativi non sono facilmente scaricabili, in termini di responsabilità, solo sugli atenei, eppure va rimarcato che tassi di disoccupazione a un anno dalla laurea, vicini al 50%, non possono certo essere reclamati quali un grande successo di nessuna agenzia di placement, figuriamoci dalle Università. Anche i salari d’ingresso sono decisamente bassi, la mediana delle medie per ateneo per gli uomini è di 995 euro, mentre per le donne di 786.

L’analisi può essere condotta anche per i giovani in possesso di una laurea magistrale, ovvero quelli che ci si aspetterebbe essere più preparati e competenti, avendo proseguito la carriera in studi specialistici, più legata, di solito, al mercato del lavoro, così come più remunerante. Il grafico due riporta gli stessi indicatori per i laureati magistrali, e la prima considerazione da trarne è la minore dispersione rispetto alla retta di regressione dei tassi di occupazione e disoccupazione, fatto interessante che rivela come i risultati siano in effetti più strettamente legati alle condizioni di mercato esterno. Nonostante tutto, la dispersione assoluta dei singoli indicatori è ancora alta, con tassi di occupazione che variano da 90%, assoluta eccellenza, a meno del 50%, certamente mediocre. I salari d’ingresso sono più alti di quelli dei laureati di primo livello. La mediana delle medie per ateneo si colloca per gli uomini a 1165 euro, mentre per le donne è di 913 euro. I salari mediani di giovani laureati che hanno studiato in atenei meridionali è inferiore dell’8% e 14%, per uomini e donne rispetto al resto degli atenei italiani. Il premio calcolato rispetto a un salario d’ingresso di un laureato del primo ciclo è, perciò, per gli uomini del 17%, mentre per le donne è pari al 16%.

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Grafico 2: Indicatori di performance sul mercato del lavoro dei laureati magistrali, aggregati a livello di ateneo, 2014

Aggregare i dati a livello di ateneo potrebbe, però, far perdere le informazioni più rilevanti, ovvero quelle relative ai corsi di laurea: potrebbero benissimo esistere corsi di laurea eccellenti, assieme a altri scadenti, all’interno di ogni università. Il grafico tre sintetizza la dispersione in alcuni indicatori di performance sul mercato del lavoro, aggregati a livello di corsi di laurea magistrale. Si nota, anche qui, una variabilità incredibile di risultati, in gran parte dovuti al mismatch fra domanda del mercato e professionalità offerte. I tassi di occupazione variano da un minimo del 40% per i corsi di laurea in conservazione dei beni architettonici e ambientali a un massimo del 100% per modellistica matematico-fisica per l'ingegneria. Che grande scoperta vero?

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Grafico 3: Dispersione degli indicatori di performance sul mercato del lavoro, aggregati a livello di corsi di laurea

I grafici seguenti mostrano i corsi di laurea e i corrispettivi tassi d’impiego, per i corsi meno performanti, ovvero al di sotto del 60% in termini di tasso di occupazione, e per quelli più performanti, ovvero con tassi di impiego superiori all’80%. Anche qui nessuna scoperta: materie care ai giovani come psicologia, conservazione dei beni culturali, giurisprudenza, filosofia, sembrano non essere particolarmente apprezzate sul mercato del lavoro. Al contrario matematica, ingegneria, fisica, insomma le famose lauree scientifiche sono apprezzatissime dalle nostre imprese. Esiste un mismatch enorme nel mercato del lavoro delle professionalità, che i solo i ciechi non potrebbero vedere. Che senso ha conservare in vita così tanti corsi senza alcun valore reale di mercato? Mistero. Vale la pena ricordare che i corsi disastrosi rappresentano il 27% di tutti i laureati, mentre i secondi solo il 16%: i risultati più bassi pesano di più sulla media generale di quanto non facciano risultati eccellenti.

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Grafico 4: “Disastri ed eccellenze” fra i corsi laurea in termini di tasso di occupazione a un anno dei laureati magistrali, 2014

I dati presentati si prestano anche a un esercizio più profondo, che è quello di poter controllare se i laureati possiedono un premio di “occupabilità” nel mercato del lavoro locale. Come ricordato, nella patria delle mille città, le università sono storicamente legate al territorio di appartenenza, fornendo a industria e servizi le competenze domandate a livello locale. A livello teorico, se i mercati locali del lavoro fossero segmentati, ci si potrebbe aspettare di notare una correlazione positiva fra tasso di occupazione dei laureati e tasso di occupazione della provincia in cui le Università hanno sedeIl grafico 5 mostra in effetti come tale correlazione esista e sia positiva.

Le informazioni più interessanti contenute nel grafico sono però quei punti distanti dalla media del fenomeno osservato, che denotano coloro che sotto-performano, o sovra-perfomano, in termini empirici, rispetto alla relazione media esistente nei mercati del lavoro locale. Prima evidenza: gli atenei del sud fronteggiano ovviamente condizioni svantaggiate, in termini di domanda di lavoro, che si ripercuotono sul basso tasso di occupazione dei loro giovani laureati. Eppure alcuni fanno meglio di altri. Perché Università come quelle di Enna, l’università di Calabria, o Roma LUMSA, sono cosi distanti da ciò che uno si aspetterebbe essere una buona performance? Perché i loro laureati hanno così poche probabilità aggiuntive di occupazione, rispetto alle condizioni locali? Addirittura, i laureati magistrali dell’Università di Chieti Pescara hanno tassi di occupazione più bassi della media provinciale! Nemmeno sedendosi fuori dai tanti e aerosi bar della città dove hanno studiato, i giovani laureati riescono a trovare un lavoro? Perché il premio di occupabilità è addirittura negativo? Non ci si dovrebbe forse domandare se sia economico che tali università continuino ad operare, dati i magri risultati? O che i migliori corsi e dipartimenti, nel caso ve ne siano, vengano accorpati ad alte realtà, più produttive e meglio integrate alla domanda di lavoro? Misteri che un ricercatore può solo sollevare, mentre toccherebbe, in un mondo normale, a politica e policy maker dell’istruzione dare una risposta a interrogativi sollevati dai dati mostrati.

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Grafico 5: Premi di “occupabilità” delle lauree magistrali nel mercato del lavoro locale

Un’ultima chicca. L’annoso problema dei voti di laurea. La media dei voti di laurea per le lauree magistrali, nell’anno 2014, era di 107.4 per il totale delle università del Consorzio Alma Laurea. 108.3 per gli atenei del Sud. Esiste una qualche relazione con il tasso di occupazione, se i dati fossero aggregati a livello di ateneo? Voti più alti danno più probabilità di lavoro? Parrebbe di no, anzi la correlazione è negativa! Voti più alti sono correlati a tassi di occupazione più bassi! Questione di “ecological fallacy”? Può essere, ma consentiteci almeno un ironico sorriso finale, per un mondo universitario che prova più odio che amore per il mondo del lavoro.

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Grafico 6: Relazione empirica fra voti ottenuti e tasso di occupazione in anno dopo aver ottenuto la laurea magistrale