Giornalisti salastampa

Che nei meandri della spesa pubblica italiana si annidino voci quantomeno opinabili, oltre a veri e propri sprechi, non è certo un mistero, essendo peraltro del tutto fisiologico. Ciò che invece è apparentemente meno logico è come determinate voci di spesa, pur essendo considerate quasi unanimemente superflue, siano in grado di restare impermeabili a qualunque intervento che non sia di mera facciata e maquillage. Un caso emblematico è quello dei sussidi alle agenzie stampa.

La vicenda è semplice: in nome della pluralità dell’informazione, il governo italiano sussidia da anni non solo diversi giornali, ma anche - in via diretta - una decina di agenzie stampa, perché prestino i loro servizi ai suoi dicasteri e organismi sottoposti. Fino al 2014, il governo selezionava ogni anno le agenzie con cui stipulare queste “convenzioni” secondo alcuni criteri che, per le loro caratteristiche, finivano per premiare sostanzialmente sempre le stesse agenzie, quelle generaliste “a diffusione nazionale”. Ci si potrebbe chiedere, a questo proposito, che senso abbia acquistare servizi sostanzialmente identici fra loro da dieci diverse agenzie, per un costo superiore a 30 milioni di Euro all’anno. La risposta è contenuta nei bilanci delle aziende interessate, coperti dalle convenzioni col governo anche fino al 60%: senza i sussidi del governo, molte di quelle agenzie scomparirebbero.

La spesa destinata alle agenzie stampa è sempre stata giustificata in nome della pluralità d’informazione. Trattasi, tuttavia, di un salto logico assai discutibile: rimpinguare i bilanci di una decina di aziende decotte disincentiva notevolmente tutte le altre, comprese quelle potenziali, e blocca ogni possibilità d’innovazione. Ma, come spesso accade, agli occhi della politica “quel che non si vede” di bastiatiana memoria è del tutto insignificante.

A voler pensar male, ci si potrebbe poi chiedere chi ci “guadagni” da una situazione così palesemente discriminatoria e anti-economica. In questo senso, le aziende sussidiate difficilmente avranno interesse a inimicarsi chi le finanzia per più di metà del loro bilancio. Con ciò non si vuol dire che il governo controlli - esplicitamente o implicitamente - le agenzie convenzionate; ma sarebbe arduo negare la possibilità che almeno in certi casi possa manifestarsi una certa soggezione psicologica e che le chances di emergere per nuove imprese del settore che non ricevano contributi pubblici (e che, quindi, siano immuni da tale ipotetica soggezione) siano notevolmente compromesse.

A partire dal governo Monti, gli esecutivi che si sono succeduti hanno tentato più volte di riformare il settore, ma senza successo. Tuttavia, qualche settimana fa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’editoria, Luca Lotti, ha definito nuovi criteri per la stipula delle convenzioni, che entreranno in vigore dal 2016. In particolare, il governo potrà acquistare solamente i servizi delle agenzie stampa che, “anche in associazione tra loro”, dispongano di almeno 50 giornalisti assunti a tempo indeterminato e di almeno tre sedi, garantiscano almeno 15 ore quotidiane di trasmissione per sette giorni alla settimana e 500 lanci giornalieri, nonché l’abbonamento oneroso a 30 testate. Tali requisiti “dovranno essere posseduti in proprio da ciascuna agenzia a partire dal 2017”; inoltre, il corrispettivo riconosciuto ad ogni agenzia non potrà superare il 45% dei ricavi dell’anno precedente.

La probabile conseguenza dei nuovi criteri sarà l’associazione temporanea di alcune agenzie per i prossimi due anni e la successiva fusione a partire dal 2017. La riduzione del numero di agenzie convenzionate, del resto, ridurrebbe certamente i costi a carico dello Stato. Ma ciò, a ben vedere, aggraverà la già scarsa concorrenzialità del settore, rendendo gli incumbent “superstiti” ancora più solidi e protetti dalla concorrenza di nuovi operatori, cui verrebbe complicato ulteriormente l’accesso al mercato, con buona pace della pluralità dell’informazione.

Del resto, nel documento siglato dal sottosegretario Lotti si dichiara espressamente che le convenzioni "contribuiscono in maniera determinante al fatturato delle agenzie interessate", e che pertanto il mantenimento di un tetto relativamente alto del peso delle convenzioni nei bilanci delle agenzie è giustificato dal fatto che "significative riduzioni o spostamenti di risorse avrebbero effetti non secondari su questo particolare mercato". Il che, tradotto nel vocabolario dei contribuenti, significa che è dovere della collettività finanziare alcune imprese altrimenti in perdita che, con i loro servizi forniti al governo, mantengono un oligopolio legale che impedisce a nuovi soggetti economici di competere alla pari sul mercato.

L’aspetto più desolante della vicenda, tuttavia, è che quello dei sussidi alle agenzie stampa è un caso paradigmatico del bipolarismo con cui nel dibattito pubblico si giudica il funzionamento di moltissime forme di finanziamento pubblico alle imprese, le cui radici sono ormai così profonde e antiche da sollevare perfino il dubbio che sradicandole si finisca per fare più danni di quanti ne possa provocare il loro inerte mantenimento. Essendo l’alternativa di lungo termine - cioè l’apertura alla concorrenza - controintuitiva, con ogni probabilità il taglio dei sussidi alle agenzie stampa si tramuterebbe presto, agli occhi dell’opinione pubblica, in un deliberato aumento della disoccupazione e in un attentato alla libertà e alla pluralità dell’informazione.

Ecco perché il connotato assistenzialista e anticoncorrenziale che caratterizza buona parte della spesa pubblica del nostro Paese è invincibile: lo spreco non è affatto scandaloso, ma è del tutto razionale.